“An uncanny masterpiece”. così Pete Townshend chitarrista degli Who recensisce il disco, il disco uscito il 10 ottobre 1969, il disco che costituirà un punto di svolta del rock inglese. Si presenta nei negozi con un volto paonazzo di un uomo dal dolce sguardo in preda al terrore. E nient’altro. Diventerà una delle copertine più famose della storia del rock. Già, il gruppo; sulla copertina non figura né il suo nome né il titolo, la confezione è quella a libro degli ellepì doppi e aprendolo, sulla destra, si incontra il dipinto di un altro personaggio dal sorriso triste e sulla sinistra il titolo del disco: ‘In The Court Of The Crimson King’, seguito in modo simmetrico nella riga sottostante dalla nota ‘An Observation By King Crimson’ e infine i testi delle canzoni.



Altrettanto sconcertante è il contenuto musicale: “Come nelle migliori coincidenze tra progetto e destino, la sensazione generale fu che i King Crimson venissero letteralmente fuori dal nulla. Niente nella loro musica sembrava richiamare qualcos’altro, niente nel loro modo di suonare, sia nello stile che nella presenza sul palco, rimandava a qualcosa di già ascoltato e di già visto. E come erano venuti fuori dal nulla, quei King Crimson del primo album svanirono nel nulla”.



A ripercorrere la storia tumultuosa di quei pochi mesi di vita del gruppo documentati nel fermo immagine costituito dall’album citato (an observation tra quelle possibili) è il bel saggio storico di Alessandro Staiti edito da Arcana “In The Court Of The Crimson King” da cui sono tratte le citazioni.

L’autore colma questo vuoto andando a ricostruire gli antefatti che portarono alla forma tramandataci dal vinile. Parte da lontano rintracciando i calmi affluenti della biografia e  formazione musicale dei singoli componenti del gruppo: la formazione jazz e classica dei fratelli Giles innamorati del rock’n’roll; Robert Fripp preadolescente privo attitudine musicale che in pochi anni diventerà un virtuoso dello strumento sotto la guida di Don Strike (suonatore di banjo che darà lezioni di chitarra anche a Greg Lake e Andy Summers);  l’adolescenza inquieta di Ian McDonald vissuta nella banda musicale dell’esercito: messo di fronte ad una grande varietà di stili e all’oscuro delle attuali mode musicali entrerà “senza nessun preconcetto su cosa possa e debba essere una rock band”; Pete Sinfield il poeta bohemien allevato dalla governante di cultura circense ed esposto alla cultura occultista, Kerouac, Huxley, il giappone di Basho; e il citato Greg Lake “il bello”.



Le trame incominciano ad intrecciarsi nel 1968 e Staiti documenta il percorso di tutte le influenze anche casuali che comporranno il materiale che magicamente prenderà forma nell’esperienza King Crimson. Proprio sulla natura di quest’esperienza ci sarà sempre un dibattito tra i protagonisti tra chi riconoscerà uno stato di grazia non individuabile nei semplici musicisti come Robert Fripp, che citerà sempre la fata buona come guida della musica affiorante tra le dita del quintetto e retrospettivamente interpreterà il nome del gruppo come ‘belzebù o l’uomo con uno scopo’, e chi come Pete Sinfield, da cui proviene il nome del gruppo, il quale cercava semplicemente qualcosa che avesse un po’ di potenza, di arroganza con riferimenti storici probabilmente presi da Federico II, ma anche le testimonianze di Mike Giles sulla telepatia tra i musicisti mentre improvvisano in stanze diverse senza contatto visivo: “c’è un momento in cui Ian sta suonando il vibrafono e fa una raffica veloce e io faccio esattamente lo stesso sul piatto. (…) Ora, da dove è venuta fuori? Cosa era successo? Non si possono progettare cose simile, non si possono neanche pensare”.

Il grande pregio del saggio è quello di raccontare gli avvenimenti come un romanzo cesellando  le testimonianze dei personaggi coinvolti: dai musicisti, alle fidanzate, ai roadies, ai critici musicali creando così una sorta di romanzo corale che riflette lo stesso spirito che portò il gruppo alla composizione del disco. Passa dalla primavera passata nei locali di Londra, attraversa l’esplosione di notorietà come gruppo di supporto nel concerto all’Hide Park dei Rolling Stones per la morte di Brian Jones, la registrazione dell’album, il tour americano, fino alla crisi e scioglimento della formazione a dicembre.

Sembra che la storia a questo punto sia conclusa con qualche cenno alle carriere successive dei protagonisti, invece anche il tempo successivo approfondisce la conoscenza di quanto successo.

Fedele alla filosofia frippiana di concentrarsi sull’adesso, Alessandro Staiti non si ferma al passato e rilegge l’evento con gli occhiali del presente.

Infatti da quando Robert Fripp all’inizio degli anni ’90 ha rilevato i diritti sul catalogo dei King Crimson ha raccolto tutto il materiale possibile e ha dato vita ad una collana di pubblicazioni di tutti i documenti live ripuliti e rimasterizzati, tra cui nel 1997 due volumi doppi di materiale della prima formazione (Epitaph vol 1 e 2). Anche questo materiale viene analizzato da Staiti  e citato nello svolgimento della cronaca in modo da poter avere la possibilità di ascoltare oggi gli episodi narrati, inoltre descrive la reunion di presentazione del cofanetto da parte di tutti e cinque i musicisti per la prima volta sotto lo stesso tetto contemporaneamente a rivalutare l’esperienza passata e la formazione della 21st Century Schizoid Band composta dai membri originali coagulati attorno a Jakko Jakszyk che portarono in tour i brani del disco negli anni successivi.

Infine anche il solo oggetto fisico dell’album contiene una storia non trascurata dall’autore, infatti viene narrata minuziosamente la storia del mastering del vinile, della sua copia per il mercato americano e il ritrovamento del master originale perso in uno scantinato della casa discografica.

Si accennava prima al parallelo con l’esperienza presente dei Crimson, infatti questo libro viene pubblicato durante la attività on the road dell’attuale formazione attiva dal 2014 formata da membri storici come Mel Collins, Tony Levin e Pat Mastelotto (tre nomi, tre ere), più il citato personaggio chiave di Jakko Jakszyk alla chitarra e voce e la presenza di altri due batteristi (ma attualmente la bestia che ha raggiunto le otto teste ha già calcato i palcoscenici americani). Per la prima volta in quarant’anni ripropongono materiale  di formazioni precedenti in particolare concentrandosi sugli anni’70 tra cui proprio i brani del primo disco.

Il tutto secondo l’approccio di considerare il materiale come nuovo, indipendentemente da quando è stato composto, ‘quello che la band fa non è come quello che appare’ e quindi viene riportato come i crimson di oggi rivivono il materiale iniziale. Insomma un materiale vivo che si rielabora col tempo raccontato tramite i concerti e i dischi dal vivo di questa nuova formazione. Chiude il saggio una questione aperta, i Kc con In The Court diedero il via a quello che sarebbe stato chiamato progressive, ma non sono un gruppo progressive! E soprattutto ripropone la questione posta all’inizio dell’esperienza di questa prima formazione dei King Crimson: la sorgente della creatività consiste nella ricezione di una grazia esterna all’autore o deve essere attribuita all’individualità dell’artista? Il musicista è uno strumento attraverso il quale scorre la musica come se questa avesse vita propria o l’arte è il prodotto della progettualità dell’artista? Questione raramente proposta in un libro di storia, ma che costituisce il filo rosso che attraversa la ricerca di tutto il saggio. Questione proveniente dalla stessa esperienza di Alessandro Staiti il quale nell’introduzione dichiara il proprio punto di osservazione, lasciando la sua testimonianza dell’incontro con il disco e il gruppo, la scuola di chitarra/meditazione creata da Robert Fripp e l’evoluzione del suo rapporto personale con il testimone per eccellenza delle vicende cremisi, fino al distacco per seguire la propria personale strada.

E la ripresa di una storia che continua procedendo parallela a quella musicale.

(Pierluca Mancuso)