Sono 19 anni che il più misterioso e poetico dei cantautori italiani del Novecento non c’è più: Fabrizio De Andrè, o semplicemente Faber, manca a tanti, anche a quei giovani che non lo videro mai dal vivo (come il sottoscritto) ma che pure sanno a memoria la maggior parte delle sue canzoni, e non solo le più famose (e il sottoscritto fa di nuovo “capolino”, scusate). Era l’11 gennaio del 1999 quando il grande cantante e poeta genovese, innamorato e “fuggito” nella sua seconda patria in Sardegna, lasciava questo mondo: album, concerti, collaborazioni, contestazioni giovanili, riflessioni anarchiche e fascinazioni nella vita di Gesù, pur rifiutando quasi sempre il rapporto con la Chiesa e la religione “in quanto tale”. Eppure resta un uomo e un cantante dal fascino estremo, laico, disperato in certi versi e portatore di una domanda di lucida speranza in altri: «anche se non è il Gesù della fede certa e canonica di Johnny Cash, ma quello semplificato dei Vangeli apocrifi, sempre Cristo è: anzi, proprio perché si parte da una lettura umana della sua figura, è un Cristo più avvicinabile all’urgenza di capire il senso dell’uomo tipica di De André sin dall’inizio. Perché non va dimenticato che De André già nei suoi primi tre Lp aveva cantato gli ultimi cui il Vangelo fa riferimento, usando pure simile pietas (Cantico dei drogati, Bocca di rosa, Via del Campo); si era riferito a Pietro e Giuda ne La ballata del Miché; aveva inciso persino Spiritual», lo scriveva anni fa un critico musicale e grande amante delle canzoni di De Andrè e Gaber come Andrea Pedicelli.



L’ULTIMA SMISURATA PREGHIERA

Proprio quella sua particolare “fede atea” aveva portato Faber ad essere contestato da tanti, sia cattolici che agnostici, che non capivano quel suo improvviso misterioso “dubbio” sulla figura umana di Gesù: eppure De Andrè era così, non cercava “l’approvazione” di nessuno e spesso si rivoltava contro le sue stesse idee perché non le considerava degne di questo mondo. Su tanto si può non condividere di quello che ha narrato e raccontato nelle sue canzoni il buon Faber, ma quell’amore così costante e imperterrito per gli ultimi non può quantomeno non stupire. «All’epoca mi considerarono anacronistico, vero… Eppure cosa cantavo? Un esempio umano da imitare, il principio etico decisivo “Ama il prossimo tuo come te stesso” e la più grande rivoluzione di sempre», così rispondeva De Andrè dopo le critiche ricevute per il suo meraviglioso concept album “La buona novella”. In tanti però ricordano appunti quegli anni, tra i Settanta e gli Ottanta, in cui De Andrè fu il centro della musica cantautore italiana: ci concentriamo però un attimo, per celebrare al meglio il Faber “religioso”, all’ultima opera, quella forse più criptica eppure musicalmente e di contenuto – a parer di chi vi scrive – geniale. “Anime Salve”, scritto e prodotto con Ivano Fossati è un autentico capolavoro, un testamento finale in cui Faber descrive da vicino con toccante sensibilità una solitudine ottenuta per scelta o per tenersi alla larga dalla maggioranza, in tutti i protagonisti dell’album. Da Dolcenera a Princesa fino al capolavoro finale di Smisurata Preghiera: «per chi viaggia in direzione ostinata e contraria, col suo marchio speciale di speciale disperazione, e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi, per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità di verità». Scrive così De Andrè, cantando quell’ultimo inno e grido di libertà verso un Dio che ritiene lontano ma che in qualche modo sente ancora in “dovere” di voler apostrofare. È tutto contraddittorio Faber, ma è proprio per questo che è così straordinariamente umano e manca ancora, dopo 19 anni, un po’ a tutti quanti. In fondo è tutto rinchiuso in quegli ultimi versi della canzone che chiude Anime Salve, appunto “Smisurata Preghiera”, una richiesta di aiuto al Signore che “non dimentichi il nostro volto”: «ricorda Signore questi servi disobbedienti, alle leggi del branco, non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti, come una svista, come un’anomalia, come una distrazione, come un dovere».

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