A volte, per scrivere una canzone di protesta non c’è bisogno di slogan, di accuse eclatanti, di prese di posizioni ideologiche. Basta una strofa, per rispecchiare in modo efficace una intera epoca storica. Come nel caso di You Can’t Always Get What You Want, brano dei Rolling Stones pubblicato nel 1969, ma scritto e inciso nel 68: Sono andato giù alla manifestazione per ottenere la giusta quota di abusi cantando Sfogheremo la nostra frustrazione se non lo facciamo, faremo saltare una miccia da cinquanta ampere“. C’è tutto in queste quattro righe: le manifestazioni che erano all’ordine del giorno in quel 1968, la partecipazione di tanti giovani che non capendone neppure le motivazioni ideologiche vi prendevano parte per sfogare la loro frustrazione rabbiosa di persone che si sentivano escluse dalla società, le botte della polizia, la minaccia di passare dalle marce alle bombe, come sarebbe in effetti successo da lì a poco. Nel ritornello, la canzone affermava una massima di saggezza zen rara a quei tempi. Mentre per le strade i giovani gridavano “vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso” gli Stones si distaccavano con il realismo di “you can’t always get what you want”, non puoi ottenere sempre quello che vuoi.



“Una canzone non serve alla rivoluzione se non sei tu a seguirla con l’azione” diceva Joan Baez, la regina del movimento per i diritti civili, lasciando trapelare quanto la musica non fosse abbastanza per “cambiare il mondo”. In realtà, le canzoni rock hanno sempre riflesso quello che accadeva intorno, una sorta di ripetitore satellitare, più che incitare a scendere per le strade. Il 68 ci sarebbe stato anche senza la musica rock, per capirci, ma la musica rock ne è stata la colonna sonora, cogliendone aspetti e limiti molto più di ogni altra forma di comunicazione. Come sempre d’altro canto, perché non c’è mezzo di comunicazione più profondo, appassionato e intelligente delle canzoni. 



Il 68 non fu solo Marx, Che Guevara e Ho Chi Min, anzi. Non fu, in larga parte, una rivoluzione proletaria, ma come colse bene Pasolini fu la rivolta dei figli della borghesia, che per la prima volta coglievano la possibilità di staccarsi da quel mondo fatto di moralismi, ipocrisie, menzogne, asservimento al potere, come bene lo aveva identificato un anno prima Francesco Guccini nella geniale Dio è morto (” Nella ricerca di qualcosa che non trovano nel mondo che hanno già (…) questa mia generazione ormai non crede in ciò che spesso han mascherato con la fede nei miti eterni della patria o dell’eroe perché è venuto ormai il momento di negare tutto ciò che è falsità, le fedi fatte di abitudine e paura una politica che è solo far carriera il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto“).



Fu almeno per molti, un momento  “di ricerca” in cui il desiderio di una vita che fosse “di più” esplose talmente forte che neanche molti degli stessi protagonisti se ne resero conto: “siamo realisti, chiediamo l’impossibile”. Lo slogan che spiccava sui muri di Parigi nel maggio 1968 era davvero rivoluzionario, capovolgeva ogni comune concezione di realismo, sfidava la comune concezione di ciò che è la vita, andava oltre, poneva la domanda di una esigenza che è umanamente inconcepibile. 

Paradossalmente, furono i Rolling Stones, la band accusata di cantare solo di sesso e droga, quella che colse meglio di tutti quello che stavano accadendo. 

Se c’è una canzone che riflette il 68, è la loro Street Fightin’ Man, che alza decisamente l’asticella dello scontro. Ancora una volta il protagonista è il giovane la cui rabbia è ormai incontenibile, arrivando a minacciare di “uccidere il re”: “Ovunque sento il suono di piedi che marciano e caricano, l’estate è arrivata ed è il tempo giusto per combattere nelle strade (…) è il momento giusto per una rivoluzione di palazzo, perché dove vivo il gioco da giocare è la soluzione del compromesso (…) dicono che il mio nome è disturbo, griderò e urlerò ucciderò il re, caccerò i suoi servitori“. Ma  a questo punto che fa “il combattente di strada”? La rivoluzione nella “sonnolente” Londra non arriva e allora “che può fare un povero ragazzo se non cantare per una rock’n’roll band? Perché nella sonnolenta Londra non c’è posto per un combattente di strada“.

Il brano, contenuto nell’album “Beggars Banquet” uscito nel Regno Unito nel dicembre 1968, contiene poi il brano più ambizioso e affascinante mai composto dai Rolling Stones, Sympathy for the Devil. Mick Jagger si ispira al romanzo Il Maestro e Margherita, per mettere in scena non come stupidamente interpretato da tanti moralisti una dichiarazione di affetto per il diavolo, ma anzi come intendeva Bulgakov, il fatto che tutti siamo colpevoli dei mali del mondo e che il male è dentro ognuno di noi, non esistono il bianco e nero, i buoni e i cattivi. Il protagonista, dice, è in giro dai tempi di Gesù, ha fatto in modo che Pilato se ne lavasse le mani e sigillasse il destino dello stesso Gesù; era dalle parti di San Pietroburgo, ha ucciso lo zar e i suoi ministri; era a bordo di un carro armato e guidato la guerra lampo dei nazisti; ha urlato “chi ha ucciso i Kennedy, quando dopo tutto siamo stati tu e io“. 

Dall’altra parte, i Beatles in quel 68, scrivono un autentico manifesto dei buoni intenti, a fronte della guerra civile che si sta scatenando un po’ ovunque. Revolution è opera di John Lennon, che ancora non è diventato il politico radicale di quando lascerà la band. I Beatles dichiarano di voler anche loro cambiare il mondo, ma “quando parli di distruzione, non sai che io mi tiro fuori (…) se vuoi raccogliere soldi per gente che odia, tutto quello che posso dirti fratello, devi aspettare (…) dici che cambierai la costituzione, dici che è colpa delle istituzioni, faresti meglio a liberare la tua mente” fino al verso più esplicito nell’allontanarsi anche loro come gli Stones, dagli eccessi ideologici che sta prendendo la rivolta: “se te ne vai in giro con i manifesti del presidente Mao, non ce la farai con nessuno“. Il metodo, sempre a firma Lennon, i Beatles lo avevano già indicato l’anno precedente: “all you need is love”, tutto quello di cui c’è bisogno è l’amore.

Gli americani invece avevano ben altro di cui preoccuparsi in quel 68: la guerra in Vietnam. Con The Unkown Soldier i Doors scrissero la canzone probabilmente più drammatica e brutale su quel tema: Jim Morrison racconta nel dettaglio le notizie televisive che parlano di morti e stragi mentre l’americano medio fa la sua bella colazione, finendo con il suono di una fucilazione imitato dal batterista. Girarono anche un filmato di accompagnamento con le immagini dell’esecuzione mentre in concerto Morrison imitava proprio quel drammatico momento. Teatro-canzone, si poteva definire, di un realismo quasi insostenibile.

Intanto Jimi Hendrix, riprendendo la misteriosa All Along the Watchtower di Bob Dylan, nel cui testo pieno di metafore si poteva intuire il senso di una apocalisse imminente e che lo stesso Dylan molti anni dopo avrebbe definito “la mia unica vera canzone di protesta”, lasciava esplodere tutta la paura e l’inquietudine di una guerra che, come disse qualcuno, “era stata voluta dai bianchi, combattuta dai neri per uccidere i gialli”. Se il pezzo di Dylan, basato sulla chitarra acustica e su lunghe note lancinanti di armonica lasciava sospeso in aria il senso di apocalisse, Hendrix facendo  esplodere la sua chitarra in quella che è la più bella e cruda serie di assoli della storia del rock, e tira giù dal cielo l’apocalisse: non c’è più speranza per nessuno.

La stessa visione apocalittica è presente in un brano ancora degli Stones. Pubblicata l’anno dopo nell’album “Let It Bleed” (già dal titolo un chiaro segnale della situazione, “lascia che sanguini”) si intitola Gimme Shelter. Forse resisi conto di essersi spinti troppo in là con Street Fightin’ Man, invocano adesso un rifugio dal disastro che ormai infiamma il mondo: “Una tempesta sta minacciando la mia stessa vita, se non trovo un riparo mi dissolverò (…) guerra, bambini, è solo a un colpo di distanza (…) stupro, omicidio, è solo a un colpo di distanza (…) dammi un rifugio o mi dissolverò”. Ascoltandola, sembra di guardare un telegiornale di quei gironi là, e per quel che può importare, lo stesso che guardiamo oggi ogni sera.

Nel 69 i Jefferson Airplane, il gruppo più radicale e politicizzato d’America, pubblica l’album Volunteers, che oltre a contenere la title track, uno sferzante e caloroso invito a scendere per le strade e unirsi  ai “volontari della nuova America contro”, contiene anche un brano scritto l’anno precedente da David Crosby, Paul Kantner (leader della band) e Stephen Stills, che sarà poi pubblicato nello stesso anno anche nel disco di esordio di CSN. La canzone, che parla dei sopravvissuti alla guerra atomica, svela l’inconsistenza dell’utopia hippie del 68 americano. Di fronte al disastro, davanti a un mondo pronto a suicidare se stesso, alle guerre e alle ingiustizie, l’alternativa è la fuga su “barche di legno” dove solo pochi eletti hanno diritto a salire, guardando i disgraziati “con orrore” che muoiono per le radiazioni atomiche. Anni dopo Jackson Browne scrisse Before the Deluge, canzone che criticava proprio l’ideologia della fuga dalla realtà.

Molte canzoni sul 68 sarebbero state scritte in seguito, una volta fatto sedimentare quanto era accaduto, in modo che la speranza di quei giorni non andasse perduta. Su tutte Chicago di Graham Nash, resa famosa con il quartetto CSN&Y, che si riferiva ai drammatici episodi durante la convention del Partito democratico che nel 68 si era riunito a congresso proprio a Chicago. Il Partito democratico era quello del presidente in carica Lyndon Johnson ed era visto, giustamente, come quello che aveva provocato la guerra in Vietnam. In quei giorni a Chicago si radunarono i giovani di tutta America per contestare fuori del palazzo, caricati a sangue dalle forze di polizia. Ma la canzone faceva riferimento anche ai cosiddetti “quattro di Chicago”, i leader del movimento studentesco arrestati e sottoposti a un processo farsa e anche a violenze fisiche: “In qualche modo la gente deve essere libera, per favore verresti a Chicago a mostrare la tua faccia? (…) nessun altro può prendere il tuo posto (…) possiamo cambiare il mondo, riarrangiare il mondo, sta morendo, farlo diventare migliore, politicanti sedetevi, per voi qua non c’è niente“. 

Ma non stava esplodendo solo il mondo occidentale e capitalista. Al di là della cortina di ferro erano giunte le stesse istanze. Soprattutto a Praga dove si tentò l’esperimento impossibile di un socialismo dal volto umano, soffocato dai cingoli dei carri armati sovietici. Curiosamente, fu proprio un uomo di sinistra a scrivere forse l’unica canzone su quella primavera, e comunque una delle più belle canzoni sul 68, anche se fa riferimento a un episodio dell’anno dopo, quando lo studente Jàn Palach per protestare contro la brutale normalizzazione imposta al suo paese, si diede fuoco in piazza San Venceslao. Con parole drammatiche e commoventi, Guccini in Primavera di Praga ricordò quel gesto, paragonando lo studente al riformatore religioso Jan Hus che nel ‘400, condannato per eresia, si diede fuoco nello stesso posto rifiutatosi di ritrarre le sue tesi: “Dimmi chi sono quegli uomini lenti coi pugni stretti e con l’odio fra i denti dimmi chi sono quegli uomini stanchi di chinar la testa e di tirare avanti dimmi chi era che il corpo portava, la città intera che lo accompagnava la città intera che muta lanciava una speranza nel cielo di Praga“.

Ma ormai cominciavano gli anni 70, quelli del piombo e della guerra nelle strade e del ritiro nel privato. In un brano pubblicato nel 2008, a 40 anni da quell’evento, De Gregori, così ricordava senza pietà il 68: “Ci sono posti dove sono stato, mi ci volevano inchiodare ai loro anni ciechi e sordi, ai loro amori raccontati male. A una canzone di quattro accordi, a una stupida cantilena. Ma tu davvero non te lo ricordi quando cantavi e sbadigliavi in scena?“.

Cinquant’anni dopo, ci restano una manciata di belle canzoni, ma soprattutto un monito che vale ancora: siamo realisti, chiediamo l’impossibile.