Ad una manciata di miglia dal confine col New Mexico. Ed abbastanza vicina alle Montagne Rocciose perché l’inverno le rifili temperature sotto zero, in contrasto con le calde estati in cui il termometro supera costantemente i trenta gradi. Durango, Colorado, si trova qui, all’incrocio tra le statali 160 e 550, che attraversano buona parte degli Stati Uniti, da nord verso sud e da oriente ad occidente. 



Al confronto con la cittadina americana, sembra proprio piccola, Cantù, il luogo dove stiamo andando a sentire il concerto di Thom Chacon, giovane storyteller americano, due piedi ben piantati nel solco della tradizione americana. Eppure i suoi abitanti sono tre volte più numerosi ed i quaranta chilometri che abbiamo percorso per raggiungerla da Milano, fatti di una serie di case senza soluzione di continuità, non hanno certo il respiro del Midwest americano. Ma il palco del locale di Carlo Prandini, All’1&35 Circa, sempre più isola di buone energie, non sembra essere così diverso da uno di quelli che potremmo trovare sulla strada che da Denver porta ad Albuquerque; e le atmosfere che stiamo per respirare, attraverso le canzoni, scopriremo essere assai simili a quegli spazi desertici che, peraltro, più che punti sulla carta geografica, sembrano più spesso luoghi dell’anima frequentati da tutti.



Thom Chacon arriva da quella cittadina del Colorado, periferia d’America così lontana ma che, nelle storie dei personaggi delle sue canzoni, appare simile a tante vicende di ordinaria solitudine comuni anche alle nostre parti. Storie che parlano di periferie umane, di un’America ancora piena di diseguaglianze sociali, di gente che muore sul posto di lavoro o per il colore della pelle. 

Di Thom, nel tempo della comunicazione globale, sappiamo già tutto. Del suo sangue per metà libanese e per metà messicano, del fatto che prima di trasferirsi a Durango è nato e cresciuto in California e di come, per sbarcare il lunario tra un concerto e l’altro, si dedichi ad accompagnare i turisti a pesca o a cavallo. Sappiamo di quel Kris Kristofferson che, visto da ragazzo, lo aveva subito affascinato, e della musica che usciva dai dischi che trovava in casa, da Glen Campbell a Jim Croce, passando da Smokey Robinson e dai Beatles di Rubber Soul. Per il resto, le influenze e le somiglianze appaiono evidenti già dopo i primi accordi delle sue canzoni. John Mellencamp è dietro l’angolo, Townes Van Zandt sembra ammiccare compiaciuto tra il pubblico e Bob Dylan, beh, lui fuoriesce da tutti i pori. Dalle sue parti – è il quotidiano locale ad averlo definito così nel 2014 – lo chiamano addirittura il Dylan di Durango, epiteto che lui stesso considera fuori luogo, anche se qualche connessione con il maestro passa almeno dalla collaborazione con Tony Garnier e George Receli, rispettivamente bassista e batterista della band di Dylan, che hanno inciso nei dischi di Thom. 



Ce n’è abbastanza per partire, se non prevenuti, per lo meno poco incuriositi, il rischio di trovarci di fronte, appunto, all’ennesimo nuovo Dylan ed a quelle canzoni di protesta alle quali, diciamoci la verità, ci siamo – ingiustamente forse – un pochino assuefatti. Ma Thom, questa sera, ha deciso di accettare la sfida. Piccolo di statura, umile e sufficientemente schivo, non cerca colpi ad effetto per accompagnarci, poco alla volta, dentro le storie delle sue canzoni. La voce roca – quasi impossibile non pensare a Ryan Bingham –un fingerpicking di chitarra essenziale e qualche spunto d’armonica sono il suo semplice veicolo, splendidamente abbellito, peraltro, dalle armonie che la steel guitar di Paolo Ercoli ed il violino di Alice Marini sanno aggiungere, creando atmosfere che sembrano uscire dagli spartiti di Ry Cooder e dalla cinepresa di Wim Wenders lungo gli scenari di Paris Texas. 

Il resto lo fanno le canzoni, soprattutto quelle di Blood In The Usa, il nuovo disco appena pubblicato dall’Appaloosa Records, etichetta italiana dall’anima fortemente a stelle e strisce, che nel libretto pubblica i testi con tanto di traduzioni. Non è difficile, così, entrare in contatto con la musica di Thom, quella che Mary Gauthier ha definito semplice ma non per questo priva di profondità. Già, la profondità. Quella che nel mondo d’oggi sembra non si riesca più a raggiungere. Le storie di Chacon in fondo sono canzoni da tre minuti, ma quei famosi tre minuti dai quali abbiamo imparato più che da anni sui banchi di scuola, perché raccontano vicende che sono vere per tutti e simili ad ogni latitudine. Così l’immigrato messicano (I Am An Immigrant) risulta straordinariamente simile al migrante sbarcato sulle nostre coste: “Sono morto di fame nel deserto / ho attraversato il Rio Grande / con solo i vestiti che avevo addosso / e una fede nuziale / Mi hanno preso a Chula Vista / E mi hanno bastonato come un cane / E ho pregato il Signore Gesù / di darmi la forza di andare avanti”. E i morti nelle miniere di carbone (Union Town) non sono poi così diversi da quelli intossicati dall’azoto in una cisterna delle nostre parti, così come il contadino che prega Dio che l’acqua nutra la terra e faccia crescere il suo raccolto non è differente da chiunque attende un lavoro che non c’è come pioggia dal cielo per andare avanti: “i bambini portano i vestiti della domenica / hanno gli occhi pieni di fede e meraviglia / ma tutto quello che vedo qui è polvere ed erbacce / Signore, questa volta ho bisogno del tuo aiuto” (Empty Pockets).

Dentro ogni canzone di Thom c’è il dramma, eppure l’orizzonte non sembra perennemente scuro. Non è un caso, infatti, che la parola “cuore” ricorra spesso. “Credo in questa terra d’oro e di speranza”, canta l’immigrato e se è vero che c’è “sangue negli Stati Uniti”, perché “si spara alla gente / per il colore della sua pelle / abbattuti, ammanettati e lasciati morire”, “resta vera una cosa / una cosa che sappiamo tutti / Non si possono uccidere il cuore o l’anima dell’America”. “Remo lungo il fiume scuro e profondo – canta in Easy Heartcon la mente quieta e il cuore sereno / Mi tengo saldo, tiro i remi / Sono vivo, al mio spirito non serve altro”. Quel cuore, insomma, sembra l’unica cosa di cui c’è bisogno, quello che solo sa se “il sole sorgerà oggi” e come farà “il fiume a trovare la via” (Something The Heart Can Only Know) e se c’è qualche buco, facciamo di tutto per rattopparlo, perché nessuno si senta mai più solo su questa terra. Sì, perché per tutta la sera in cui Thom ha cantato, anche se nessuno l’ha nominata sul palco, noi avevamo in mente anche lei, Dolores O’Riordan, la cantante dei Cranberries, della cui morte avevamo appreso da poche ore. Come l’ennesima nota stonata, che rischia di rovinare sempre anche la canzone più bella. Ed in mezzo alle sue canzoni Thom aveva lasciato pure uno spazio per un brano di Tom Petty, Even The Losers, quello che racconta che anche i perdenti avranno prima o poi la loro occasione. 

E allora, mentre si torna a casa, la mente rimane a lungo su quel verso di Blood In The Usa, la canzone che forse ci ha smascherato di più: “It’s getting dark / Sky is turning grey / There’s a hole in the heart, of the USA”. Il buco nel cuore è quello che abbiamo tutti e che ci impedisce di guardare all’altro, lasciando che il suo dramma ci passi accanto invano. Nel suo libro Uneasy Rider, racconto di un percorso lungo le superstrade americane così simile a mille delle nostre canzoni, Mike Bryan sembra indicare una via percorribile: “motel e ristoranti da camionisti dall’inizio alla fine del viaggio. Fissa la bestia negli occhi. Ama il tuo vicino di casa. Porgi l’altra guancia”. Come a dire: prenditela su tutta, fino in fondo, questa tua vita; vivi con pienezza ciò che ti è dato, sapendo che nel frammento di ogni circostanza è contenuto il tutto. Abbraccia quel pezzetto di umanità che ti è capitato intorno e non aver paura di quel buco perché quel cuore è più grande di qualsiasi altra cosa. “Hai un cuore grande come la luna”, canta Thom in Big As Moon. Non aver paura di tirarlo fuori, allora, mettilo in mostra e vedrai che i buchi, un po’ alla volta, si ripareranno, fuori dal buio e sotto i raggi del sole: “hai una luce che uccide tutta la tristezza / Ed io ho ancora delle cose che sto cercando di dimostrare / E tu hai un cuore grande come la luna”.