In primo luogo, occorre complimentarsi con il Teatro Massimo di Palermo per avere avuto il coraggio di produrre, dopo cinquanta anni dall’ultimo allestimento palermitano una nuova edizione dell’ultima e più complessa opera di Gioacchino Rossini, Guillaume Tell. L’opera viene presentata, per la prima volta a Palermo, in francese ed in una edizione quasi integrale, ossia con tagli ‘di tradizione’ già adottati nella seconda metà dell’Ottocento. Si basa sull’edizione presentata a Londra nel 2015 alla Royal Opera House in quanto il capoluogo siciliano ne ha acquistato l’apparato scenico ed ha ingaggiato lo stesso team creativo (Damiano Michieletto alla regia, Paolo Fantin per la scene, Carla Teti per i costumi, Alessandro Carletti for le luci), ma il cast, l’orchestra ed il maestro concertatore sono differenti (Ferro a Palermo, Pappano a Londra) ed anche i tagli sono differenti a ragione della sensibilità del direttore musicale. A Londra l’edizione ha causato polemiche di pubblico e di stampa a causa di una scena di stupro al terzo a atto, che il pubblico palermitano ha accolto con molto calma, pace e tranquillità.



E’ una sfida che pochi teatri raccolgono a ragione non solo della durata del lavoro ma anche del vasto numero di solisti, dell’enorme coro e del vasto corpo di ballo che richiede. Negli ultimi trent’anni, in Italia si ricordano soltanto tre  edizioni in forma scenica: quelle della Scala del 1988-89 e del Rof del 1995 e del 2013 nonché una in forma di concerto (Santa Cecilia 2007, ripresa nel 2010, portata nei Promenade Concerts di Londra e registrata dalla EMI). L’edizione Rof 2013 è stata vista anche a Bologna, e (in italiano, non in francese) a Torino



Alla Scala per il Sant’Ambrogio 1988 venne sperimentata da Luca Ronconi (peraltro con poco successo) una scenografia con proiezioni; il DvD è stato ritirato dal commercio anche a ragione di una resa musicale inadeguata (la concertazione ondeggiava tra il pallido e l’enfatico). Al Rof nel 1995, l’intero Palafestival venne trasformato da Pier Luigi Pizzi in montagne e valli dei cantoni svizzeri; venne pure previsto, data la durata dello spettacolo, un intervallo sufficientemente lungo per una cena organizzata in un parcheggio (trasformato in ristorante) accanto al luogo di spettacolo.  



Non inferiori alla messa in scena ed alla regia sono i trabocchetti in orchestra (una delle più smaglianti di Rossini) e delle voci (specialmente per il tenore nel ruolo di Arnold e per il soprano in quello di Mathilde, mentre il ruolo del protagonista è relativamente più facile). In effetti,  dopo il trionfo a Parigi nel 1829 e la lunga serie di repliche all’Accadémie Royal de Musique (allora Teatro Nazionale dell’Opera) – ben 700 durante la vita di Rossini le difficoltà dell’opera portarono, sino a tempi recenti, alla diffusione  di edizioni mutilate (e modificate), spesso in tre atti, in varie lingue. Soltanto nel 1972, al Maggio Musicale fiorentino, con la direzione di Riccardo Muti ( Eva Marton, Nicolai Gedda, e Normal Mittelman nei ruoli principali) si poté ascoltare il lavoro in edizione integrale

Rossini aveva 37 anni quando compose Guillaume Tell. Successivamente, entrò in una profonda depressione e, sino alla morte del 1868, non lavorò più a opere liriche, ma unicamente ad alcune rare composizione di musica sacra (lo Stabat Mater e la Petite Messe Solennelle) e a cameristica per piano (Les Petits Rien).  La vulgata dice che la decisione di affrontare Guillaume Tella avvenne per mostrare di essere in grado di gareggiare con il grand opéra che allora iniziava a mietere successi in Francia ed altrove e che la successiva lunga depressione gli impedì di continuare a produrre per la scena. Il dramma di Schiller sarebbe stato scelto proprio per le opportunità che offriva di fare un grande spettacolo (cambiamenti di scena tali da includere montagne, valli, laghi in tempesta, balletti e quant’altro). 

In effetti, il sottostante libertario e liberale di Guillaume Tell (la liberazione dei cantoni svizzeri dal giogo asburgico grazie ad un eroe tutto di un pezzo) pare poco affine ad un Rossini tendenzialmente conservatore, ove non reazionario, e vicino più ai principi del Congresso di Vienna che a quelli della rivoluzione francese ed ancor meno a quelli del terremoto che nel 1848, poco meno di venti anni dalla prima rappresentazione di Guillaume Tell) avrebbero attraversato mezza Europa. Molto probabilmente, Rossini era sfinito da una vita attiva troppo precoce e troppo intensa; inoltre, la lauta pensione ottenuta dopo cinque anni di battaglie legali lo obbligava a non comporre opere per teatri differenti da quello Reale (poi Imperiale) della capitale francese. 
Prima di recensire l’edizione del Teatro Massimo, salutata da dieci minuti di ovazioni dopo quattro ore e mezzo di spettacolo è utile precisare alcuni punti che smentiscono la vulgata corrente. L’opéra monumentale (quali la “Vestale” di Gaspare  Spontini) già da decenni era sui palcoscenici dei maggiori teatri francesi in quanto legati alla concezione imperial-napoleonica del teatro in musica. Il grand opéra di Auber e Meyerbeer (intimamente legato alla ricca borghesia dell’industrializzazione nascente) era ancora ai primi passi. 

Quindi, se Rossini ebbe un modello da sfidare non fu il grand opéra , ma le vera rivoluzione musicale apportata in Europa da Der Friechütz di Carlo Maria von Weber che dopo la prima alla Staatsoper di Berlino nel 1821 era approdato , non all’Accademie Royale de Musique, ma al più piccolo Odéon in versione francese (Robin de Bois ou les trois balles); nonostante fosse un adattamento con numerosi tagli, ebbe un successo non previsto (327 repliche) ed recò un vento nuovo (la descrizione della natura, il demoniaco, il protagonismo del coro) che si riallacciava, però, in parte a quanto Rossini aveva sperimentato in La Donna del Lago. Il patriottismo libertario di Tell poco aveva a che fare con i principi di democrazia della rivoluzione e, successivamente, della democrazia rappresentativa; metteva in scena invece la lotta degli umili contro gli oppressi (già tema ad esempio di Mosé in Egitto Maometto Secondo). Rossini era sensibile alle mode e le ventate nazionalistiche e di liberazione dall’oppressione straniera (temi allora di successo) pervadono già “Mise et Pharaon” e “Le Siège de Corinthe”. Alla conclusione dell’opera, il liberatore Tell non è alla guida di qualche forma di processo democratico ma un leader carismatico.

Il silenzio dopo Tellviene adesso attribuito ad un problema di salute, oltre che al regolamento relativo alla sua pensione: una malattia venerea contratta in una delle case di tolleranza che era uso frequentare sin dall’adolescenza, la conseguente astinenza sessuale per diversi anni e la conseguente depressione proprio in un periodo in cui il gran opèra francese, il melodramma verdiano e ilmusik drama wagneriano cambiavano profondamente il teatro in musica.

Un’ultima notazione: delle tante opere tratte da drammi di Schiller Guillaume Tel è quella più fedele all’originale. Questa è una delle determinanti della sua complessità. Il lavoro di Schiller, infatti, ha tre temi paralleli: a) il conflitto personale tra Tell ed il Governatore austriaco Gessler; b) la rivolta dei contadini e pescatori svizzeri contro gli asburgici; c) la tensione tra patriottismo e amore nel rapporto tra uno dei leader della rivolta, Arnold, ed una aristocratica asburgica, Mathilde. Il tutto, poi, si svolge in tre differenti cantoni (Url, Sxwyz e Unterwalden), comportando frequenti movimenti di spazio. Gaetano Donizetti, che di opera se ne intendeva, scrisse che dei quattro atti di Guillaume Tell tre furono composti da Rossini ma uno (il secondo, quello del giuramento dei cantoni) da Dio in persona. Questo riassume perché l’opera è rimasta sempre in circolazione nell’Ottocento e nel Novecento pur se in versioni mutilate e solo di recente, grazie all’edizioni critica della Fondazione Rossini, si può tornare all’originale.

Nella edizione del Massimo, l’azione è spostata alla fine del Novecento – guerre balcaniche nella frammentazione della ex Jugoslavia. Tell non è un eroe tutto d’un pezzo, ma un contadino pieno di dubbi e fortemente legato alla propria famiglia e terra; è costretto a scendere in campo contro i soprusi ai suoi stessi cari. Pieni di dubbi naturalmente anche Arnold e Mathilde; ambedue giungono alla presa di coscienza dopo un lungo cammino (l’uccisione del padre di Arnold ed il tentativo di violenza sul figlio di Tell). Una lettura più drammatica e psicologica che eroica.

Il punto forte dello spettacolo è, in gran misura, nella concertazione dilatata di Gabriele Ferro e nella smagliante orchestra del Massimo che mostrano quel forte senso della natura (le valli, le montagne, i laghi di una Svizzera mitologica) meno presente nella regia e nell’apparato scenico di quanto, a mio avviso, dovuto. Concertazione ed orchestra provano che se, dopo Guillaume Tell, Rossini non si fosse pensionato dal teatro in musica a 37 anni, il suo percorso non sarebbe stato verso il grand opéra francese o verso il romanticismo italiano ma verso il romanticismo tedesco di von Weber e Marschner. Il livello qualitativo dell’orchestra del Massimo dipende anche dal fatto che la stagione lirica è affiancata da una sinfonica con grandi bacchette.

 Il cast è solido. Dmitri Korchak ha dimostrato di essere, con Juan Diego Flórez e John Osborn, uno rari tenori con la vocalità richiesta per l’impervio ruolo di Arnold. Di alto livello Nino Machaidze, una Mathilde coraggiosa e determinata. Korchak, Machaidze ed il coro hanno un ottima dizione francese, non sempre presente nel resto del cast. In linea con la lettura della regia, Roberto Frontali è un Tell introverso che matura gradualmente la decisione di diventare un leader ed un eroe.