Due anni fa mi è capitato di assistere, presso l’Auditorium di Milano, ad un concerto inaspettato: una rock band costituita per l’occasione, accompagnata dall’orchestra del Teatro Verdi, eseguiva “Picture At An Exibition” (nella versione degli Emerson, Lake And Palmer) e l’intero “Concert for Group And Orchestra” di Jon Lord (Deep Purple). Sapendo quanto è difficile e costoso muovere orchestre di discrete dimensioni disposte ad eseguire musica “alta” scritta da artisti rock e a quanto, invece può essere bello assistervi, avevo vissuto quel momento come un’irripetibile circostanza fortunata.



Eppure, in cuor mio, speravo che la cosa si ripetesse e mi dicevo che sarebbe stato bello poter sentire anche i lavori di Frank Zappa… fino ad oggi.

L’occasione era, quindi, di quelle da cogliere al volo: due concerti milanesi, parte di una tournée in diverse altre città d’Italia, dedicati alle sue composizioni per orchestra, eseguite dagli allievi dell’Accademia Teatro alla Scala sotto la guida del ricercatissimo e pluripremiato Peter Rundel -che già aveva diretto questi brani nel ’91, in presenza del loro autore-.



È noto che compiacere Zappa era praticamente impossibile, dato il suo maniacale perfezionismo, ma in quell’occasione egli affermò: “Non ho mai sentito un’esecuzione così accurata della mia musica. L’impegno del gruppo nel suonare correttamente e il fatto che abbiano lavorato fino ad averne fin sopra i capelli sono stati commoventi. Avreste dovuto vedere quanto sono state estenuanti le prove e quanto meticoloso è stato il direttore, Peter Rundel, nella ricerca della perfezione in tutti i dettagli di questo lavoro.”.

Allora sul palco del Konzerthaus di Vienna c’era la Ensemble Modern, un gruppo di diciotto elementi specializzato in musica moderna. Eppure credo che il compositore di Pomona sarebbe stato soddisfatto anche in questa occasione, pur essendo i musicisti dell’Ensemble “Giorgio Bernasconi” davvero giovanissimi.



L’interesse di Frank Zappa verso la musica classica contemporanea, soprattutto verso Stravinskij e Varèse, è noto e trapela chiaramente anche in molti brani dei Mothers of invention (la sua prima band) e nei suoi dischi solisti. Tuttavia, le prime manovre orchestrali risalgono solo al luglio del 1982 quando, grazie alle royalties di “Valley Girl” (la sua canzone di maggior successo commerciale), riuscì ad ingaggiare la London Simphony Orchestra (Lso). Il suo sogno sarebbe stato farla dirigere da Pierre Boulez, uno degli uomini più importanti e influenti nel mondo della musica moderna – col quale avrebbe comunque collaborato l’anno seguente per le incisioni di “Pierre Boulez conducts Zappa: the perfect stranger” (1984) – ma il destino scelse Kent Nagano.
Quest’ultimo, in un’intervista, affermò di essere rimasto sbalordito nel constatare la maestria nell’arte della composizione di quello che aveva fino a quel momento considerato solo un ottimo chitarrista rock: “Ho studiato gli spartiti e ci ho messo un po’ perché erano davvero molto complessi. Riuscire ad immaginare come fossero era impegnativo. E, con mia grande sorpresa, ho trovato in quella pila di fogli composizioni davvero notevoli, pezzi meravigliosi, che sarebbero stati davvero emozionanti.” (Barry Miles, “Frank Zappa”, Universale Economica Feltrinelli, 2004).

I brani a cui Nagano faceva riferimento erano “Mo’n Herb’s vacation”, “Bob in Dacron”, “Sad Jane”, “Envelopes”, “Pedro’s Dowry”, “Bogus Pomp” o “Strictly Genteel”, poi incisi nell’album “London Symphony Orchestra (vol. 1 – 2)”, ma il giudizio che diede sulla musica di Frank Zappa può certo valere anche per “The Yellow Shark”.
Composizioni difficili, quindi, tanto da eseguire quanto da ascoltare, in cui la ricerca di accostamenti inediti di note e ritmi si accompagna ad un’intensa sperimentazione di suoni nuovi. Rispetto a questo, con l’Ensemble Modern scattò da subito una straordinaria sintonia (che Zappa non ebbe mai con la Lso): “Una delle cose che mi piace dell’Ensemble Modern è che sono interessati alla ricerca sul suono. Durante una prova, uno dei trombettisti, nell’alzare il suo strumento da terra, lo ha grattato sul pavimento e ne è uscito un rumore. Gli ho detto: ‘fallo di nuovo’, e di lì a poco l’intera sezione dei fiati era lì a far strisciare gli strumenti sul pavimento, producendo questo rumore stridente, come un brontolio”.

Zappa campionò uno per uno i musicisti dell’orchestra con un Synclavier, per poter continuare i suoi incessanti esperimenti anche senza di loro. Voleva sentire come suonassero i pallini che scriveva sul pentagramma, come un chimico che cerca di combinare fra loro i reagenti più impensati, creando elementi nuovi (più o meno stabili).

E questo approccio assolutamente “mentale” alla musica, quasi scientifico, unito a un pizzico di folle ironia, ha prodotto “The Yellow Shark”.

Ecco dunque spiegata la presenza di pistole giocattolo tra gli strumenti dell’orchestra, o di sirene antincendio e di altre diavolerie. Tuttavia i gesti precisi di Peter Rundel contribuivano a farci superare l’effetto di iniziale straniamento di fronte a simili bizzarrie e ci obbligavano a riconoscere che ognuna di esse era inserita in una struttura che, per quanto apparisse folle o bislacca, era invece di una raffinatissima precisione geometrica.
Fuori dagli schemi è stato anche l’invito del simpatico direttore d’orchestra a inizio concerto ad applaudire pure, se ne avessimo avuto voglia “even without a reason” (anche se di ragioni per farlo ce n’erano eccome).
“Dog Breath Variations” – i titoli delle composizioni sono evidentemente figli dell’ironia sopra citata – ha aperto la serata, seguita da “Uncle Meat” e i suoi improvvisi crescendo, accompagnati da accelerate di ritmo davvero “cinematografiche”. Si è giunti quindi alla malinconica “Outrage At Valdez”, che Zappa scrisse per il documentario “Alaska: Outrage At Valdez”. Quest’ultimo racconta di un disastro ambientale avvenuto nel 1989, in cui il carico della petroliera Exxon Valdez si riversò in mare con conseguenze disastrose per l’ecosistema marino. Il tema era particolarmente caro a Zappa e si sente: il brano è infatti il più intenso e coinvolgente tra quelli in scaletta.
La parte centrale della serata è stata dedicata ai pezzi più complessi, come “Times Beach II – III”“Be-Bop Tango”“The Girl In The Magnesium Dress” o “Ruth Is Sleeping” (in cui il pianista Gaston Polle Ansaldi ha dovuto fare gli straordinari).

A proposito di questi ultimi mi permetto una considerazione: questa musica, per quanto raffinata e complessa, mi ha lasciato la nettissima impressione di essere, ultimamente, fredda. È come se Zappa, scegliendo di esprimersi attraverso questo canale, avesse trovato il modo per non rivelarsi mai (o quasi), celando i propri sentimenti di uomo malato e ormai prossimo alla morte, dietro ad arzigogoli dall’ammirevole architettura, ma sacrificando per essi ogni accenno ad una frase melodica in grado di concludersi ordinatamente, secondo un alfabeto tonale, sicuramente più accessibile. D’altronde, La figlia Moon lo ricorda come un uomo distaccato, assente, mai disposto ad aprirsi al dialogo su ciò che riguardava sé e la propria interiorità.

Infine, per la conclusione della prima parte, ecco schizzare come fuochi d’artificio le note dell’esplosiva riarmonizzazione di “G-Spot Tornado” (originariamente presente nell’album “Jazz from Hell” del 1986).
Dopo lunghi minuti di applausi l’Ensemble “Giorgio Bernasconi” dell’Accademia Teatro alla Scala ha concesso dei bis, tra cui una efficace versione orchestrale di “Uncle Remus” (dall’album capolavoro “Apostrophe (‘)” del ‘74), in cui Flavio Virzì, per l’occasione alla chitarra elettrica, ha ben onorato la memoria del maestro californiano.
Credo che il modo migliore per ricordare, senza il rimpianto per non averlo più tra noi, uno dei più geniali musicisti e compositori degli ultimi decenni sia proprio ridare vita e giovinezza agli spartiti in cui più si riconosce la sua inesauribile vena creativa.

(Stefano De Palma)