Quando Ulisse viene accolto nella reggia di Alcinoo, re dei Feaci, durante il banchetto offertogli in segno di ospitalità, inizia uno dei racconti più affascinanti che la storia della narrazione abbia mai visto dipanarsi, tanto da costituire l’archetipo di ogni futura narrazione. Il racconto di Ulisse rappresenta un’occasione non solo per i commensali (tra cui prende posto ogni lettore, passato e futuro), ma soprattutto per il narratore stesso: raccontarsi costituisce una delle principali modalità con cui Ulisse prende coscienza della propria esperienza. Addirittura, potremmo dire che ogni racconto sia un’attività della coscienza che permette ai fatti di ricomporsi in esperienza: per questo, spesso, per poter fare un passo nel proprio cammino di maturazione è necessario raccontarsi. E Ulisse, forse per far diventare esperienza il suo viaggio di esperienze, si racconta ad Alcinoo, proprio prima di tornare, finalmente, a casa.
A Ulisse ho pensato martedì sera mentre suonavano al Forum di Assago le note di Lights of home, secondo pezzo della scaletta dell’ultima data dei concerti milanesi degli U2: “I believe my best days are ahead/ I can see the lights in front of me/ Oh Jesus if I’m still your friend / What the hell you got for me / I gotta get out from under my bed / I can see again the lights in front of me / Hey I’ve been waiting to get home a long time / Hey now, do you know my name / Hey now, where I’m going / If I can’t get an answer / In your eyes I see it / The lights of home”.
In una delle pause del concerto, è comparsa suo schermo una frase che diceva (più o meno) così: la vera saggezza è il recupero dell’innocenza al termine dell’esperienza. Se Paul, Dave, Larry e Adam abbiano o meno raggiunto l’innocenza a questo punto del loro percorso è tutto da vedere, ma certamente l’aspetto più interessante di questo Innocence + Experience tour è proprio questa volontà, mai così esplicita in passato, di raccontarsi, di capirsi, non soltanto facendo un bilancio, quanto provando a legare le tappe della loro quarantennale carriera in uno “storytellig”, come si dice oggi. Gli U2 del Forum per me sono stati quattro (quasi) sessantenni impegnati a raccontarsi per capirsi, impegnati a fare i conti con la loro storia nel tentativo (utopico forse) di contribuire al cambiamento del mondo.
La scaletta del concerto, infatti, ha ripercorso la storia della band e dei suoi componenti, soffermandosi su alcune fasi creative e personali, nel tentativo di ritrovare un senso al percorso delle loro vite e delle loro carriere. Così i quattro dublinesi partono rinvigorendo l’entusiasmo e la verve punk degli inizi della loro carriera, con due brani che non fanno solo ballare: ci immergono anche nel cuore “ideale” della band. Non so se tutti quelli che saltavano sul riff trascinante di I will follow sapessero che la canzone è un dolente canto (ma pieno di certezza) scritto da Bono nel ricordo della morte prematura della madre (fatto che peraltro ha ispirato altri indimenticabili pezzi degli U2); oppure se abbiano distinto il latino presente nel ritornello di Gloria, uno dei pezzi più esplicitamente religiosi della band: “Gloria, in te domine, Gloria, Exultate, Oh, Lord, if I had anything, anything at all, I’d give it to you”; però tant’è: io mi sono commosso.
La fase del successo planetario, quella del disco e relativo tour di The Joshua tree, complice anche il precedente tour del trentennale del disco, è comprensibilmente sacrificata nella scaletta per concentrarsi sugli avvenimenti degli anni Novanta, anni decisivi per la band. L’insuccesso (per la critica, non per i fan) del film Rattle and Hum unita a una sorta di overdose di successo presso il pubblico, aveva portato la band vicino a un punto di rottura. L’inizio della loro rinascita avvenne a Berlino, quando presso gli Hansa Studios, davanti ai resti del muro appena caduto, i quattro si ritrovarono e ricostruirono la loro identità di gruppo quasi per caso, su un’improvvisazione che poi diventò One (imperdibile il documentario, From the sky down, dedicato a quel passaggio della loro carriera).
Bono ricorda questi avvenimenti dopo una ruvidissima Zoo station, e apre così la sezione più interessante del concerto: quella in cui, oltre alle inflazionatissime Elevation e Vertigo (io mi son preso una pausa e mi son seduto…), la band esegue pezzi tratti proprio da Achtung Baby e dintorni: oltre a una bellissima versione acustica di Stay, una esplosiva The fly, i fan del forum possono ascoltare pezzi da brividi: una versione rimaneggiata in chiave dance di Even better than the real thing, e la sospiratissima Acrobat, un capolavoro mai eseguito live prima d’ora. Il testo della canzone denuncia l’aggressività dei media nei confronti della band nel periodo sopracitato, ma è anche uno di quei brani in cui Bono fa i conti, da megalomane quale è, con i suoi limiti:
“No, nothing makes sense / Nothing seems to fit […] /And I’d join the movement / If there was one I could believe in / Yeah I’d break bread and wine / If there was a church I could receive in / ‘Cause I need it now / To take the cup / To fill it up / To drink it slow / I can’t let you go / I must be an acrobat / To talk like this / And act like that / And you can dream / So dream out loud / And don’t let the bastards grind you down”.
In uno dei (numerosi) momenti di parola Bono spiega che negli anni Novanta gli U2 hanno dovuto fare i conti con un periodo di crisi ed esperimenti non solo di natura musicale, ma anche personale e familiare. E per introdurre l’ultima sezione del concerto – quella dedicata al tema dell’amore (amore come ospitalità) – il frontman ricorda l’importanza che ebbe, in quegli anni, per lui e per gli altri componenti della band il tempo trascorso con le proprie famiglie, speso a parlare e ascoltare i figli: così la “West coast” della Summer of love dell’ultimo disco assume le i colori e le forme della costa francese del Mediterraneo, dove Bono e famiglia trascorrono da anni le loro vacanze, e su cui oggi sbarcano i migranti.
Nulla è lasciato nell’implicito o sottinteso: Bono, con una verve più da maestrino che da profeta (Rattle and Hum) o da attore (Zoo/Pop tour vari), spiega tutto. E nel finale (sullo sfondo una bandiera enorme dell’Ue) la ricostruzione della propria storia si trasforma in messaggio umanitario: Pride, lo storico pezzo dedicato (in maniera piuttosto fortuita, stando alle ricostruzioni della genesi del pezzo) alle battaglie per i diritti del reverendo King, diventa ora un inno all’accoglienza dei migranti. E le canzoni della fase finale del concerto sono dedicati all’amore, con tutte le sue possibili connotazioni: dalla dedica alle proprie compagne e mogli, all’esaltazione delle più disparate forme di affetto al di là dei generi (come sembrano suggerire le immagini che scorrono durante Love is bigger of anything). Che siano questi, per Bono e soci, gli elementi dell’innocenza ritrovata dopo l’esperienza?
Nonostante la polemica sull’aspetto “politico” dei loro concerti non sia mai finita (era iniziata, con meno frizioni forse, già ai tempi di War, e si è rinvigorita quando l’impegno della rockstar ha iniziato ad andare oltre la musica, surclassandola secondo molti, e avendo esiti non sempre conformi alle intenzioni dichiarate, secondo alcuni), mi pare che il messaggio sulla accoglienza dei migranti lanciato da Bono con molta determinazione (parole, musica e immagini) non vada sottovalutato, al di là degli esiti o delle forme con cui è stato espresso. Sarà forse un caso, ma al termine dello spettacolo non ho potuto far a meno di notare che ad aiutare la Crew dublinese nello smontaggio, era presente una nutrita squadra di giovani ragazzi tutti di colore.
E in ogni caso nessuno può schivare la freccia che ci viene lanciata quando si parla – a un concerto rock! – di ospitalità: forse gli U2 avrebbero potuto, nella loro disposizione odisseica a raccontarsi, fare proprie le parole che Omero mette in bocca a Nausicaa, quando, non ancora consapevole dell’identità del naufrago che torva sporco e distrutto sulla spiaggia, dice così alle sue compagne: “Questi è un misero naufrago, che c’è capitato, / e dobbiamo curarcene: vengon tutti da Zeus / gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro. / Via, date all’ospite, ancelle, da mangiare e da bere, / e nel fiume lavatelo, dov’è riparo dal vento” (Omero, Odissea, VI).
N.B.: Come ha cantato Bono? Bene, molto bene!