E’ con il vento in poppa che il 27 settembre, in un affollatissimo Teatro Regio (con numerosi stranieri) è iniziata l’edizione 2018 del Festival Verdi, che sino al 21 ottobre porta a Parma e nei luoghi verdiani quattro opere, numerosi concerti, programmi per giovani ed anche rappresentazioni per avvicinare i più piccoli al Cigno di Busseto. Dopo una fase di difficoltà, il festival è tornato al fulgore dei suoi anni migliori. E’ stato riconosciuto come festival “di interesse internazionale” – un riconoscimento che comporta uno speciale contributo dello Stato – ed è stato in grado di attirare partner e finanziamenti privati.



L’opera inaugurale è Macbeth nella edizione originale del 1847 per il Teatro La Pergola di Firenze, presentata in un nuovo allestimento con la regia di Daniele Abbado, i costumi di Carla Teti e le luci di Angelo Linzalata: una produzione essenziale ed atemporale, in una Scozia di nebbie e pioggia. Non è piaciuto ai “tradizionalisti” nel loggione ma le loro, peraltro limitate, proteste sono state travolte dagli applausi e dalle ovazioni. In buca, la Filarmonica Toscanini (ampliata con l’Orchestra giovanile della Via Emilia) era diretta da Philippe Auguin, Quattro grandi voci di fama internazionale: Luca Salsi (Macbeth), Anna Pirozzi (Lady Macbeth), Michele Pertusi (Banco), Antonio Poli (Macduff). Il sempre eccellente coro di Parma è guidato con maestria da Martino Faggiani. 



Tanto la tragedia di Shakespeare quanto il melodramma verdiano sono imperniati sul “gioco del potere”, tema centrale di questi anni. Pochi sanno che i Macbeth verdiani sono tre: quello del 1847 che ebbe la prima al Teatro La Pergola di Firenze; quello del 1865, fortemente rimaneggiato, per il Théâtre Lyrique di Parigi e aggiornato di nuovo per La Scala nel 1874. L’edizione del 1874 è raramente citata nelle stesse storie delle musica e viene messa in scena solo di tanto in tanto: se ben ricordo, l’ultima volta che è stata vista è circa dieci anni fa allo Sferisterio Festival di Macerata. Nel 2011 a Salisburgo e a Roma, Riccardo Muti e il regista Peter Stein hanno scelto una combinazione della versione del 1847 e di quella del 1865. A Parma si è messa in scena la versione del 1847, più vicina a Ernani ed a Giovanna D’Arco, ma per certi aspetti più moderna, soprattutto nell’uso del declamato.



Macbeth è la più breve e più compatta tragedia di Shakespeare. Narra della cruenta ascesa del protagonista, istigato dalla moglie, al potere assoluto e della sua successiva caduta. Quindi, sangue e guerra, nonché follia. A mezza strada tra un melodramma donizettiano (la prima versione) e un dramma in musica prossimo a Don Carlo, Aida e Otello (la terza versione), senza un ruolo importante per un tenore spinto, con un soprano drammatico il cui registro deve sfiorare quello del contralto, l’opera ha avuto nell’Ottocento un successo intenso, ma breve. Sparì dai cartelloni verso il 1880. Venne rilanciata da un’edizione strepitosa diretta da Vittorio Gui e successivamente dalla proposizione alla Scala il 7 dicembre 1952 con Victor De Sabata nel podio e Maria Callas protagonista. La versione originale del 1847 ha aspetti modernissimi, specialmente nell’uso del declamato messo in risalto con grande abilità dai solisti.

Macbeth è opera difficile. Nel suo epistolario, Verdi richiedeva “voci efficaci, anche se non belle”. A Parma il cast ha voci sia efficaci sia belle. La concertazione di Auguin ha tempi larghi, un piglio meno battagliero di quello di altre edizioni e una maggiore attenzione ai dettagli. L’orchestra e il coro rispondono con grande efficacia. Come si è detto un trionfo più che un successo per tutti, specialmente per Salsi, Pirozzi e Pertusi.