“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più grande scopritore di talenti della storia della musica (tra i tanti, Count Basie, Aretha Franklin, Charlie Christian, Billie Holiday, Bruce Springsteen e ovviamente Bob Dylan). Sta parlando con il produttore Phil Ramone, fondatore e proprietario di quelli che allora sono i più importanti studi discografici di New York, gli A&R Recording, che si trovano dove erano gli studi di registrazione della Columbia negli anni 60, e dove Dylan registrò i suoi capolavori, da Freewheelin’ a Highway 61.
Hammond è perentorio, non ci sono alternative: Dylan è appena tornato alla Columbia, sua casa discografica storica, dopo un anno di esilio alla Geffen. Deve registrare un capolavoro o niente e ancora una volta Hammond sa già che sarà così. E’ la metà di settembre del 1974, e qualcosa di ancor più che magico verrà “catturato”.
Questa è una storia che però comincia prima, esattamente il 14 febbraio precedente, quando Dylan scende dal palco del Forum di Inglewood, Los Angeles, dove è terminato l’ultimo concerto di quello che è stato chiamato il “Comeback tour”.
Dopo otto anni di lontananza dai concerti, a parte qualche apparizione sporadica, il cantautore è tornato a fare un tour, per di più con gli storici accompagnatori di The Band, gli stessi che erano con lui durante l’ultima sua tournée, quella del 1966. Cinque milioni e mezzo di persone, il 7% della intera popolazione americana, aveva fatto richiesta per uno dei circa 500mila posti disponibili per uno dei 40 concerti previsti. Il tutto per una durata di un mese e 11 giorni (diversi concerti si tennero in due appuntamenti in un giorno solo, al pomeriggio e alla sera) in 21 città da una costa all’altra dell’America. Un successo stratosferico, un ritorno atteso come la seconda venuta di Gesù sulla Terra. L’unico che mentre scende le scale del palco è a disagio, insoddisfatto, è lui, Bob Dylan. Quel tour gigantesco, a bordo di jet privati, limousine, suite principesche negli alberghi, guardie del corpo, lo ha lasciato interdetto. Non sono più gli anni 60, pensa, “quando ci divertivamo”. Il mondo della musica degli anni 70 è invece un enorme business. A Dylan questo non basta.
Ma non ci sono solo motivi artistici dietro il suo malumore. Il rock’n’roll può essere pericoloso per le persone sposate. Perché un matrimonio resti in piedi, c’è bisogno di una buona dose di compromesso da entrambe le parti. Per otto anni Dylan è stato il marito e il padre di famiglia perfetto, lassù a Woodstock. Nello stesso tempo la sua vena artistica è andata scomparendo realizzando dischi insulsi di country melenso. Dylan e Sara Lownds, una ex pin up di Playboy che aveva divorziato dal marito fotografo dopo aver avuto da lui una figlia, si erano sposati in gran segreto il 22 novembre 1965, così segretamente che quasi nessuno lo sapeva, neanche le tante amanti e groupie che Dylan aveva a New York. Per molte di loro fu uno shock scoprirlo.
Quando si sposano, Sara era da poco entrata nel mondo del cinema, lavorando con D.A. Pennebakbr, ironicamente proprio l’autore di Don’t Look Back, il film documentario sul tour inglese di Dylan nel 65. Ma non ha la più pallida idea di chi sia: quando la moglie di Albert Grossman, che le presenterà Dylan stesso, le mostra un suo filmato, lei risponde che pensava che avessero visto un concerto di Bobby Darin. Ed è proprio questo che affascina il cantautore: oltre alla sua favolosa bellezza, Sara è una persona che non lo frequenta perché è una star, la cosa che lo ha sempre infastidito maggiormente. “A parte la bellezza, ciò che attrasse Dylan fu probabilmente l’attitudine zen di lei. A Sara non interessava chiedergli di spiegare i testi delle sue canzoni. Lei era interessata invece al misticismo orientale, non aveva un ego prominente a differenza dell’ossessione ambiziosa che caratterizzava lui. Il bilanciamento era perfetto” (Andy Gill e Kevin Odegard, da “A simple twist of fate”, DaCapo Press, 2004).
Una donna dal comportamento regale, dicono gli amici comuni,: “Era in grado di esprimere una regale radianza e allo stesso tempo la capacità di calmare le situazioni più caotiche”. In un momento in cui i suoi amici più stretti, e Dylan stesso, stavano scivolando nell’abuso delle droghe, Sara apparve nella sua vita come un angelo salvatore: “Come in she said, I’ll give you a shelter from the storm”. Chi li conobbe negli anni del loro matrimonio, ancora ricorda che quelli furono gli unici in cui Dylan era se stesso e non la star che il pubblico aveva idealizzato e ossessionato, in pace col mondo e con i suoi incubi.
Già poche settimane dopo la fine del tour però su alcuni giornali di gossip appare la notizia che Dylan ha un flirt con la ex moglie dell’amico cantautore John Sebastian. Notizia che non troverà alcuna conferma, ma tanto basta per far pensare che il matrimonio con Sara stia andando in crisi. In quei mesi, Dylan compra una fattoria nel suo Minnesota, a poca distanza da dove vive il fratello David, un luogo perso nelle campagne e nei boschi, una solitudine perfetta. La coppia ha infatti venduto la residenza di Woodstock dove hanno vissuto per quasi un decennio, ma Sara è più interessata al glamour e al sole della California. E’ così che comprano un terreno a Birdcliff, un promontorio di Malibu dove vivono le star di Hollywood a pochi chilometri da Los Angeles. Qui fanno costruire una villa che dir lussuosa è poco: ci vorranno due anni per completarla e circa due milioni di dollari. Ma Dylan sente canzoni nuove emergere profondamente dentro di sé. Ha bisogno di solitudine così si reca a passare l’estate del 74 in quella fattoria con i figli, che la moglie li lascia mentre segue i lavori della villa di Malibu. Ma oltre ai figli c’è un’altra persona.
Si chiama Ellen Bernstein, una giovane esecutive della Columbia, 24 anni, che Dylan ha conosciuto durante il tour con The Band. L’amicizia tra i due cresce, tanto che Dylan la invita a passare quell’estate nella fattoria con lui e i figli. Dalle testimonianze di lei tra i due non c’è niente di più. In pratica la donna si occupa dei figli mentre Dylan si isola a comporre. E’ una situazione ambientale perfetta per lui. Ha tra le mani costantemente una agenda dalla copertina rossa su cui scrive continuamente (copia della quale è contenuta nella confezione deluxe del BS 14). E’ in piena esplosione creativa, ma l’unico riferimento alla Bernstein è riscontrabile nel brano You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go, dove Dylan cita Ashtabula, la cittadina dell’Ohio dove Ellen è nata: “Non mi piacque molto che citasse la mia città, ma alla fine lo trovai molto divertente. Voglio dire: chi metterebbe mai in una canzone un posto che si chiama Ashtabula?”.
Ellen Bernstein, a cui Dylan legge i testi e fa sentire i primi abbozzi delle canzoni, resterà a suo fianco anche per tutta la durata delle sedute di registrazione tenute a New York.
Non solo: per la prima e probabilmente ulnica volta nella sua carriera Dylan decide di far ascoltare i suoi nuovi brani in anteprima ad alcuni amici musicisti. Per un uomo che si è sempre fidato del suo istinto, questa volta sente invece il bisogno di conferme. Per primo si reca a San Francisco, dall’amico Michael Bloomfield, l’autore dell’immortale riff di Like a Rolling Stone e la chitarra solista di tutto quel disco. Purtroppo Dylan è Dylan. Come racconterà Bloomfield “si mise a suonarmi le canzoni una dopo l’altra senza fermarsi mai, non riuscivo a seguire gli accordi, non mi permetteva di prendere appunti, non ci capivo niente, mi sembravano tutte canzoni uguali”. Bloomfield gentilmente invita Dylan a recarsi da qualcun altro. Quando CSN&Y nel corso del loro tour del 1974 suonano a Minneapolis, si reca da Stephen Stills, il quale lascia letteralmente fuori della porta Graham Nash che ascolterà con un orecchio sullo stipite quello che succede. Quando Dylan se ne va, commenta con disappunto che“ è un grande cantautore, ma non è un musicista”. Nash rimane di stucco: per lui si tratta di capolavori. Dopo due pareri negativi trova finalmente il giudizio positivo di Shel Silverstein, la leggenda della musica country che Dylan adora. Silverstein infatti apprezza le nuove canzoni.
E’ il 16 settembre quando Dylan si presenta agli A&R Studios da solo, con la sua chitarra acustica e le sue armoniche. Quello stesso giorno Phil Ramone, che è stato incaricato di registrare quello che Dylan canterà e che in teoria è il produttore, anche se l’unico vero produttore è Dylan, incontra per i corridoi degli studi Eric Weissberg. E’ l’autore di quello che l’anno prima, grazie anche all’inclusione nella colonna sonora del film di grande successo Un tranquillo weekend di paura, il brano strumentale Duelling Banjos, è stato un enorme successo commerciale in mezzo mondo. E’ in studio con la sua band. Ramone gli chiede se vogliono accompagnare Dylan. Curiosamente Weissberg, che è sulle scene da tanto quanto lo stesso Dylan, è stato anche il fidanzato della sorella di Suze Rotolo, la compagna di Dylan ai tempi di Freewheelin’. I due non si vedono da allora, in ogni caso quando ti si chiede se vuoi registrare con Dylan, nessuno dice di no. Il problema è che Weissberg e i suoi Delibverance sono un gruppo di musicisti provetti, gente che passa i pomeriggi solo per accordare le chitarre, che trascrive e studia gli spartiti per tutta la notte. Esattamente il contrario di Bob Dylan, che attacca a suonare immediatamente senza dire una parola a nessuno un brano dopo l’altro.
Usa una stranissima accordatura aperta in Mi e Re che mette tutti in difficoltà. Rifà lo stesso pezzo più volte cambiandone gli accordi o il tempo. “Se non fosse stato Bob Dylan, mi sarei alzato e me ne sarei andato” racconta Weissberg. Registrano per ore e alla fine, anche dal comportamento di Ramone che non rivolge loro parola, capiscono di essere lì non perché interessi il loro contributo, ma solo perché Dylan cominci a scaldarsi, ad ambientarsi, a prendere confidenza con il materiale. Nessuna di queste registrazioni infatti sopravviverà, neanche nel nuovo cofanetto ce ne è traccia, a parte Meet Me in the Morning, pubblicata sul disco originale, con l’aggiunta in seguito della pedali steel molto fuzzy di Buddy Cage (la prima versione del pezzo, intitolata Call Letter Blues, musicalmente identica ma con testo differente, uscirà su Bootleg Series 1-3). Inoltre Bob Dylan, ben conscio del fenomeno dei bootleg a suo danno che stanno diventando sempre di più, ordina addirittura di cancellare molte registrazioni che non gli piacciono.
Il giorno dopo il bassista dei Deliverance, Tony Brown, riceve una telefonata, Phil Ramone gli dice di recarsi in studio. Chiede al resto della band se hanno ricevuto la stessa chiamata: la risposta è no, nessuno ci ha invitati. Da quel momento Brown sarà l’unico ad accompagnare Dylan nelle registrazioni, con l’emozione e la tensione che possiamo immaginarci. Le successive incisioni si tengono il 17, il 19 (con la presenza di Mick Jagger, che cerca di insegnare a Dylan qualche vecchio blues e pazzeggia qua e là all’armonica) e il 24 si chiude tutto.
Quello che Dylan ha inciso in questi pochi giorni è stupefacente, la sua miglior raccolta di canzoni dai tempi di Blonde on Blonde e, per alcuni, la sua migliore di sempre. Di queste incisioni una versione di If You see Her Say Hello verrà pubblicata nel cofanetto del 1991 The Bootleg Series 1-3 (tra le tante che compaiono nel nuovo BS una splendida versione appena sussurata); una versione di Shelter from the Storm registrata il 17 andrà nel disco ufficiale (peccato non sia stata inserita la versione con tempo più veloce, decisamente superiore, che appare in questo BS 14; un’altra versione era stata inserita nella colonna sonora del film Jerry Mcguire). Così è anche per una versione di You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go, il brano più provato durante queste session, di cui ne appaiono 12 versioni su BS 14. Una Buckets of Rain del 19 settembre è quella pubblicata sul disco, mentre una affascinante Idiot Wind, altro brano provato innumerevoli volte, è stata pubblicata su BS 1-3. Non c’è paragone tra l’asciutta disperazione e la rabbia tagliente, sostenuta solo da una chitarra acustica suonata con grande impegno, rispetto alla melensa versione uscita sul disco ufficiale.
Il 24 settembre Dylan prova numerose versioni di Meet Me in the Morning tra cui la versione, con la pedal steel di Buddy Cage in evidenza, già pubblicata nel 1985 nel cofanetto Biograph. Numerose sono le versioni di Tangled Up in Blue, una di queste finite anch’essa nel BS 1-3. Quello che si ascolta è anche questa volta nettamente superiore alla versione ufficiale. Dylan canta con convinzione estrema, ogni parola è ben definita e spesso sputata fuori con rabbia, con intensità uniche. Il suo lavoro alla chitarra acustica, inoltre, è egregio, con cambi di accordi continui. “Dylan conosceva bene la visione necessaria per queste canzoni” racconta Ellen Bernstein. “Bob viveva in persona queste parole mentre le creava. La maggior parte dei pezzi cresceva e cambiava in modo organico”.
Il pezzo che però si rimpiange di più rispetto a quello pur bello pubblicato nel disco originale, è You’re a Big Girl Now: ci sono versioni dove vi prendono parte Paul Griffin, che suona un delizioso Hammond jazzato, e Buddy Cage che in alcuni casi esplode con potenza nel finale strumentale, intrecciandosi alle tastiere.
Il disco è pronto, almeno così sembra. A metà dicembre la Columbia stampa le copie promozionali da mandare alle radio e ai giornalisti. Pochi mesi dopo la pubblicazione di BOOT, le tracce di New York cominceranno già a circolare su bootleg. Alcune copie promozionali arriveranno a destinazione prima che a Natale Dylan decida di voler rifare parte del disco, su suggerimento del fratello David che non appare convinto del risultato e trova le canzoni troppo oscure, poco commerciali, troppo uguali tra di loro. E’ interessante notare che comunque la sequenza dei brani non cambierà mai.
E’ così che il 27 dicembre Bob Dylan in compagnia del figlio di 5 anni Jakob (la futura rock star) entra agli studi Sound BD a Minneapolis. Riesce a trovare in un negozio locale di chitarre quello che viene definito “modello Joan Baez” perché da lei sempre usato. Dylan è entusiasta, ma il suono di chitarra raggiunto in queste sedute non è minimamente paragonabile a quelle di New York. Tangled Up In Blue subisce il trattamento più rivoluzionario, con accompagnamento di una dodici corde, di tastiere in primo piano, basso e batteria. E’ una versione ovviamente affascinante, ma meno incisiva delle precedenti. Viene registrata una nuova versione di Idiot Wind che finirà sul disco, con parti di organo (orribili) suonate da Dylan e un accompagnamento di batteria ma il risultato è sciatto. Idiot Wind doveva rimanere quella istantanea glaciale e inquietante registrata a New York, ricca di rimorso e non una serie di insulti rivolti a non si sa chi. Anche una nuova Lily, Rosemary and the Jack of Hearts viene inclusa sul nuovo disco, e in questo caso la versione è superiore: basso, batteria e tastiere arricchiscono la trascinante ballata che Dylan canta in maniera più convincente. Infine registra You’re a Big Girl Now, che fa uso di un pianoforte jazzy invece delle tastiere ed elimina la pedal steel e che finirà nella nuova versione di BOTT. Un peccato anche questa volta.
Tutti gli altri pezzi invece sono tratti dalle session della Grande Mela. Ne manca uno solo, splendido, registrato a New York e incluso in Biograph, l’autobiografica Up to Me, che doveva chiudere il disco e il cui posto fu invece preso da Buckets of Rain, pezzo musicalmente plagiato da quello di Tom Paxton, Bottle of Wine. Sarebbe stato un finale assai diverso: se Buckets of Rain esprime solo disillusione e amarezza, Up to Me presenta un Dylan che si prende le sue responsabilità e lascia aperta il discorso.
Un solo altro giorno in studio, il 30, e il disco è finalmente finito. Con lui hanno suonato musicisti locali, trovati dal fratello David, alcuni dei quali neanche professionisti e il cui nome non comparirà neanche sul retro copertina del disco, aggiunto solo in ristampe di anni successivi: Chris Weber alla chitarra, l’uomo che gli aveva affittato la chitarra e che quando glie la porta in studio, si sente dire da Dylan “entra, voglio che registri insieme a me”; Kevin Odebarg, Billy Peterson e Bill Berg.
La Columbia, che aveva stampato migliaia di copie della prima versione con sul retro note di copertina del poeta Pete Hamill, ristampa la nuova versione eliminandole. Ma quando alcuni giorni dopo viene annunciato che le liner notes sono candidate al premio Grammy, si procederà a una terza versione ristampata con di nuovo le note.
Se il Blood on the Tracks registrato a New York è un uomo ferito che vaga di notte per strada, il sangue ancora che cola fuori, quello di Minneapolis ha il sangue ormai asciugato e le ferite che si stanno chiudendo.
E’ davvero difficile dire chi siano i soggetti delle canzoni contenute in BOTT: canzoni che si ripetono in modo ciclico a proposito di amore che sta finendo, amore trovato, amore fisico, amore respinto. Dylan, considerato spesso l’autore confessionale per eccellenza, in realtà ha moltissime volte, quasi sempre, interpretato personaggi fittizi, o comunque assunto la persona di altri soggetti anche quando canta in prima persona o ancora nascosto se stesso dietro maschere altrui per cantare di se stesso. Non sarebbe quel mistero e quell’enigma che è.
Dylan non ha mai fatto il cuoco nei Great North Woods e Sara non è mai stata a Tangeri. Interpretare queste canzoni come una sorta di memoria autobiografica significherebbe uccidere l’immenso dono di storyteller che rappresenta Bob Dylan al suo meglio: “Volevo definire la concezione di tempo, così che quella storia prendesse vita nel presente, nel passato e nello stesso momento. Quando osservi un dipinto, puoi vedere tutte insieme ogni parte”. Ed è così che è strutturato questo disco, sorta di opera cinematografica, o di quadro, dove tutto accade nello stesso momento, e dove tutti sono un altro.
Un brano come Tangled Up in Blue, una volta che ci siamo tolti di dosso l’idea che questo sia un disco di canzoni autobiografiche, ad esempio è un piccolo grande romanzo, tra i racconti di Jack Kerouac e i noir di Raymond Chandler. Soprattutto, è una grande storia americana, paese che il protagonista attraversa da un capo all’altro come il protagonista di On the Road. L’unico riferimento autenticamente personale si trova nell’ultima strofa, quando Dylan cita l’atmosfera dei primi anni 60: “C’era rivoluzione nell’aria”. Shelter from the Storm, la canzone dove invece più è evidente il riferimento a Sara, è una canzone di amore assoluto, di ringraziamento per avergli salvato la vita, offerto un rifugio fisico e spirituale: insomma non c’è separazione o divorzio nella mente di Dylan quando pensa a lei.
Poco dopo l’uscita del disco, in una intervista radiofonica con Mary Travers, componente dei vecchi amici Peter, Paul and Mary, Dylan si infurierà non poco per le recensioni che parlano tutte di disco del divorzio: “Vorrei che la gente si informasse prima di spararle grosse. In quel periodo io e mia moglie eravamo ancora sposati, come avrei potuto scrivere certe cose?”. Un bluff? Sicuramente Dylan è consapevole di aver scritto un disco pieno di dolore: “E’ difficile per me capire come la gente possa appassionarsi a qualcosa del genere, capire come possa apprezzare questo tipo di dolore” dirà anni dopo. O ha ragione Jakob Dylan quando, ormai adulto, dirà: “Apprezzo tutti i dischi di mio padre ma non riesco ad ascoltare Blood on the Tracks, quello è il suono dei miei genitori il cui matrimonio sta andando a pezzi”?
L’ultima parola, per adesso, l’ha avuta di nuovo il suo autore quando, nella autobiografia Chronicles vol. 1, ha scritto che “quelle canzoni non hanno niente a che fare con la rottura del mio matrimonio, ma sono state ispirate dai racconti di Cechov”.
Anche Simple Twist of Fate, la storia di una notte d’amore fugace e clandestino, ha dei protagonisti che potrebbero essere chiunque. Come ha scritto Gabriele Benzing sul sito Onda Rock, questa canzone dice che “nel cuore dell’uomo, c’è un vuoto incolmabile che sembra dovuto ad un semplice scherzo del destino e che aspira all’assolutezza di una totale comunione della propria anima con la persona amata: l’amore per la donna è segno di questa ricerca, ma sembra essere sempre destinato a un’inevitabile delusione, che lascia soltanto l’insopportabile amarezza della solitudine”. La grandezza di Dylan sta nell’esprimere in pochi versi una storia intera, con particolari realistici, inquietanti, e un senso di solitudine schiacciante. Ma chi non ha vissuto una storia come questa?
Dylan in questo disco scrive in modo fino ad allora inedito per lui, confondendo e alterando i piani temporali dove vengono narrate le storie, una tecnica, dirà, imparata frequentando i corsi di pittura di un certo Norman Raeben, che più che un pittore era una sorta di mago esoterico e che soprattutto non si fece per nulla influenzare dalla fama del cantautore (che probabilmente manco sapeva chi fosse) riprendendolo aspramente come qualunque altro: “C’era il passato, l’oggi e il domani tutto insieme” ha spiegato lo stesso Dylan. “Mi aiutò a tirare fuori una sorta di terzo occhio che osservava la realtà in modo diverso. Quando tornai a casa da mia moglie, non riuscivo più a farmi capire e lei non mi capiva” aggiunge. Insomma, definirlo il disco del divorzio, come è passato alla storia, è certamente riduttivo. Esattamente come i rapporti sono qualcosa di più del momento della rottura, i dischi che parlano di separazione affettive sono molto di più delle relazioni che narrano.
Lily, Rosemary and the Jack of Hearts fu addirittura considerata per una possibile sceneggiatura per un film, brano in cui la capacità di storyteller di Dylan tocca uno dei suoi vertici massimi. Certo, c’è la sconfortante amarezza di un dialogo di addio fra due amanti nella superba You’re a Big Girl Now (“So dove posso trovarti, nella camera da letto di qualcun altro”), forse la più bella canzone scritta sul tema della fine di un rapporto d’amore.
E poi c’è la misteriosa Idiot Wind, uno dei brani che ha richiesto più prove ed è stata sottoposta a un continuo cambio di liriche. Nelle belle note di copertina, Pete Hamill descrive l’America di quel periodo storico, “un paese che ha bisogna di poeti” dice, perché è crollato in pezzi. Da una parte lo scandalo Watergate, dall’altra il ritorno a casa di migliaia di giovani dal Vietnam, i sopravvissuti e soprattuto gli sconfitti per la prima volta nella storia americana, oltre 50mila giovani morti senza neanche sapere per chi e per cosa avevano combattuto. Un paese moralmente in ginocchio. E allora Idiot Wind, nel suo amaro disprezzo, nella sua promessa tradita, nella sua rabbia contro una realtà di cui non ci si riconosce più parte, potrebbe essere scritta invece che per una donna, per l’America stessa, “dalla diga del Grand Coulee Dam al Campidoglio” (ricordiamoci che un brano come Positively 4th Street, che appare come l’addio rabbioso a una fidanzata, è invece un addio alla comunità folk del Greenwich Village). E l’idiota che non si sa neanche come faccia a respirare, che nel finale diventa un “noi” potrebbe essere ancora la madrepatria. Un’autentica Divina commedia, Idiot Wind rimane a tutt’oggi uno dei suoi massimi capolavori: mai tanta velenosa rabbia si era sentita in una canzone rock, e solo Dylan poteva farlo.
Il matrimonio fra Dylan e Sara avrebbe avuto degli alti e bassi fino al 1976, quando il cantautore una notte, nella casa di famiglia a Malibu, si portò a letto una ragazza e scende a fare colazione con lei mentre sono presenti la moglie e i figli. Un comportamento rozzo e volgare, che portò al divorzio l’anno successivo dopo aspre lotte, compreso il tentativo da parte di Dylan di rapire i figli da scuola. Un disperato tentativo finito in aula di tribunale, dove l’unica cosa che si sa dell’accordo finale è una cifra di 36 milioni di dollari pagati alla ex moglie e i diritti d’autore su tutte le canzoni scritte durante il matrimonio in cambio del suo assoluto silenzio sulla loro storia d’amore. Silenzio che Sara ha sempre mantenuto, la cui immagine non è neanche mai finita in mano ai paparazzi dal 1977 a oggi.
Sara non avrebbe avuto bisogno di soldi per garantire il silenzio: lo avrebbe fatto da sola. L’unica cosa che si sa di lei è che per un certo periodo ha avuto una boutique di alta moda a Los Angeles. C’è una foto del 1984, l’unica del post matrimonio, durante la laurea di uno dei figli, in cui i due si vedono serenamente e piacevolmente seduti sul prato insieme al fratello David durante la cerimonia, cosa che fa pensare che col tempo Dylan e la ex moglie abbiano recuperato un rapporto sereno. Oggi Sara ha quasi 80 anni, Blood on the Tracks ne ha 43 e il mistero è ancora aperto. Ci sono diverse canzoni sparse nel resto della carriera di Dylan che qua e là sembrano far riferimento ancora a Sara (“Credo sia troppo tardi per dirti quelle cose che tu avevi bisogno di sentirmi dire” in Shooting Star del 1989 ad esempio).
In una intervista dei primi anni Duemila, Jakob Dylan dice: “Molti anni fa in una intervista mio padre disse che moglie e marito possono essere destinati al fallimento, ma un padre e una madre non lo saranno mai. I miei valori etici sono alti grazie a mio padre e mia madre che hanno fatto un ottimo lavoro”. Non c’è alcun dubbio su questo.
Blood on the Tracks resta una delle più profonde e dolorose raccolte di canzoni della storia della musica rock, che ancora oggi, quando la metti sul piatto, continua a versare sangue sui solchi. E con il suo, anche il nostro perché tutti possiamo riconoscere un pezzo della nostra vita in quei solchi. E chi non ha versato sangue per amore, non potrà mai capire.
(Il prossimo 2 novembre esce “More Blood, More Tracks, The Bootleg Series Vol. 14”. La versione CD/2LP raccoglie 10 versioni alternative delle 10 canzoni che compaiono su “Blood On The Tracks” più una versione inedita di “Up to Me”. La versione deluxe full-size da 6CD include invece le registrazioni complete di New York in ordine cronologico. Le uniche registrazioni rimaste dalle sessioni in studio di Minneapolis sono i multi-traccia delle cinque esibizioni incluse nell’album “Blood On The Tracks”, ognuna remixata e rimasterizzata. Durante la produzione di “Blood On The Tracks”, Dylan ha chiesto a Ramone di accelerare molti dei master del 2-3%, una pratica comune negli anni ’60 e ’70 in particolare per i dischi che venivano inviati alle radio AM. In ‘More Blood, More Tracks’, per la prima volta, sentiamo le canzoni esattamente come Dylan le ha registrate”.
Il cofanetto deluxe è un’edizione limitata. Dopo la vendita, non verranno effettuate ulteriori copie. Questo box include un libro di foto con copertina rigida e note di copertina dello storico del rock Jeff Slate e una riproduzione completa di uno dei leggendari notebook di 57 pagine scritti a mano di Dylan, in cui è possibile seguire lo sviluppo lirico delle canzoni che hanno dato vita a “Blood On The Tracks”)