Per le celebrazioni dei cento anni della nascita di Leonard Bernstein (1918-1990) il Festival di Nuova Consonanza è stato inaugurato l’11 novembre con una nuova produzione della sua prima opera, Trouble in Tahiti, un breve atto unico formato da un preludio e sette scene su libretto proprio – l’unico caso in cui Bernstein sia stato l’autore sia della musica che delle parole. E’ la prima volta che l’opera viene messa in scena a Roma. La produzione è in collaborazione con Opera InCanto e l’Universià di Roma Tre, Teatro Palladio.



Il Festival, giunto alla 55esima edizione si dipana in vari luoghi della Capitale sino a dicembre per venti appuntamenti di grande rilievo e si conferma la maggiore iniziativa di musica contemporanea ‘colta’, o ‘alta’ come alcuni preferiscono scrivere, del Paese.

Le intenzioni di Bernstein, appena rientrato da una serie di concerti in Europa ed in procinto di sposarsi, erano quelle di mettere alla berlina il sogno americano della middle class negli agglomerati suburbani del suo tempo, prendendo spunto da una coppia in crisi dopo dieci anni di matrimonio. Una metafora dell’incomunicabilità: pur di non dover affrontare i silenzi di una serata in cui non sanno più cosa dirsi, i coniugi fuggono la realtà chiudendosi in un cinematografo e lasciandosi trasportare dalle fasulle vicende romantiche proiettate sullo schermo. E, al tempo stesso, una severa critica della società in cui viveva in anni in cui, dopo la seconda guerra mondiale, da un lato, la pursuit of happiness (prevista nel primo articolo della Costituzione americana) pare raggiunta ma, da un’altra la guerra fredda ed il maccartismo provocano tensioni e perplessità. Il libretto è dedicato a Marc Blitzsteun, amico di Bernstein e noto – si direbbe oggi – come ‘intellettuale di sinistra’.



Presentato il 12 giugno 1952 alla Brandeis University di Waltham, MA, davanti a tremila persone, due mesi dopo, con il finale modificato, fu eseguito a Tanglewood e a novembre, con ulteriori modifiche, fu trasmesso in televisione dalla NBC Opera Theatre e poi messo in scena dalla New York City Opera nel 1958. Fino al 1973 Lenny non lo volle più eseguire se non per una produzione della London Weekend Television. E’ stato ripreso di recente,  ad esempio  da Opera North in Gran Bretagna.

Trouble in Tahiti è breve (circa quaranta minuti),  è tutto cantato dall’inizio alla fine, eccetto un piccolo dialogo volutamente parlato. Bernstein ha detto che “era una sfida: vedere se la espressione vernacolare americana – vuoi musicale vuoi linguistica – potesse essere utilizzata in qualcosa che si potesse chiamare opera senza però avere l’artificiosità dell’opera convenzionale”.



Ha evitato accuratamente  gli stilemi dell’opera italiana o tedesca tradizionale. E questo è evidente: i songs e l’unico duetto sono tipici del teatro musicale americano e l’orchestrazione ha sapori e colori jazzistici. L’orchestra è composta principalmente da fiati, ottoni e percussioni. Molto curato, e molto astuto, il contrappunto. Mentre sulla scena si svolge una vera e propria tragedia della incomunicabilità tra la coppia ‘realizzata’ nella sua ascesa sociale ma inaridita neia i rapporti tra coniugi e tra essi il proprio figlio, un trio jazz (soprano tenore e baritoni) commenta, inneggiando alla ‘felicità’ dei suburbs dove vive la classe medio alta degli Stati Uniti.

A causa della sua brevità nel 1983 il lavoro fu inglobato in un sequel come un lungo flashback e così è stato rappresentato col titolo A Quiet Place alla Scala nel 1984 diretto da John Mauceri. Ne esiste una registrazione basata sulla messa  in scena, l’anno seguente, all’Opera di Vienna. Lasciò dubbiosi allora, ed ancora oggi, sia sulla tenuta drammaturgica che su quella musicale. Da A Quiet Place, Bernstein ha tratto una buona suite orchestrale.

Trouble in Tahiti va contestualizzata nella cultura musicale americana degli Anni Cinquanta. Allora era piena di innovazioni, più vicina quasi a Treemonisha di Scott Joplin che a Porgy and Bess di George Gershwin. Ebbe un’influenza significativa sullo sviluppo successivo dell’opera americana. Ancora oggi, è, al tempo stesso, gradevole e drammatica nel suo ritratto sarcastico della tragedia della felicità.

La produzione, realizzata con estrema economia di mezzi, è molto buona anche se (ma pochi lo hanno colto) il lavoro richiederebbe interpreti americani e con le flessioni linguistiche di New York. Eccellenti anche nella pronuncia il trio (Lucia Filaci, Carlo Putelli e Luca Bruno. Molto buona Dinha, la moglie (Chiara Osella) . Lasciava a desiderare Sam, il marito (Dario Ciotoli) che poco aveva , non solo nella dizione (di difficile comprensione) ma anche nell’abito, e nella barba, poco consoni ad un trentacinquenne borghese americano, degli Anni Cinquanta.

Efficace la regia e piacevoli le proiezioni. Di grande livello l’Ensemble InCanto, diretto da Fabio Maestri e con Fabio Colajanni, Roberto Petrocchi, Andrea Di Mario, Massimiliano Costanzi,, Giulio Calandri, Jamil Zidan, Silvia Paparelli, Massimo Ceccarelli.