Anita, hai qualcosa di più da dirmi
di quello che credono gli altri, in questa città”
(Venticentoquarantotto, Anita)
Là dove un tempo c’erano gli edifici dell’Alfa Romeo, adesso c’è un giardino. Panchine, viali alberati, ed una montagnetta quasi alta come il Monte Stella. In una notte di luglio, cerco, insieme ad altri, di scorgere un’eclissi di luna, ma non ci riesco. Milano è sempre impietosa quando lo sguardo si alza verso l’alto: troppa luminosità, in estate, per ammirare le stelle e troppo grigio, d’inverno, che si mescola a quello dei palazzi e dell’asfalto. Dall’alto della montagnetta penso a quegli anni in cui il mio nonno era partito dalla sua Toscana, un tranquillo paesino di fronte all’isola d’Elba, per trovare lavoro qui. Una vita da operaio, aveva appeso il diploma di fedeltà che la casa costruttrice di automobili gli aveva conferito una volta giunto alla pensione. Poi, dopo qualche anno, era stato anche insignito del titolo di maestro del lavoro e allora quell’appartenenza si era fatta ancor più forte.
Com’è cambiata, da quei tempi, la città. Sembra invincibile, ora, con i suoi grattacieli, il traffico, e la vita, che scorre sempre più veloce. Eppure la Ghisolfa, con il suo cavalcavia, è sempre là, così come le case e le storie delle persone, che, là sotto, continuano a percorrere la loro strada. E le domeniche, in fondo, non sono poi cambiate così tanto: “E’ arrivata l’ora solare, alle cinque è buio come se fosse notte – cantano i Venticentoquarantotto in Nostalgiche Domeniche – ho bisogno di qualcosa per illuminare i pomeriggi bui”.
Che buffa cosa, chiamarsi come un codice di avviamento postale. Eppure questi quattro ragazzi di Milano – Martina Lanzi, voce; Luca Zaliani, voce e chitarra; Luca Vecchio, basso e Roberto Romoli, batteria – hanno scelto questo nome per la band, perché loro “erano cresciti alle radici di quegli alberi” e allora non importa se adesso c’è chi abita a Quarto Oggiaro, perché “le radici arrivano anche là, passando sotto il cemento e la tangenziale”.
Venticentoquarantotto, dunque, per un quartiere di periferia dove gli alberi ci sono ancora e per un box sotto terra dove cominciare a scrivere canzoni. Quattro ragazzi di vent’anni che ascoltano i Red Hot Chili Peppers, ma anche Coldplay, Bon Iver, Mumford & Sons, The Tallest Man on Earth e Lucio Dalla. Che iniziano a incidere in inglese, ma poi passano all’italiano, con tutte le sue difficoltà – “la nostra lingua è difficile da far suonare ed è un lavoro duro ogni testo che si scrive”, così raccontano in un’intervista di un paio d’anni fa – e poi suonano dove capita, spesso in piccoli posti, ma, come ricordano, citando Dylan, “è più facile suonare per 50000 persone che per 50 che ti ascoltano dentro nel profondo”.
Così il loro primo EP porta il nome di quel quartiere – Ghisolfa – nel quale sono nati e cresciuti e che, all’improvviso, diviene come un osservatorio della città e delle vite che le scorrono dentro. Vite come quelle di Anita – forse il brano più bello del disco – che ci dicono che proprio chi è passato dalla sofferenza ha da darci qualcosa che a noi manca ancora: “Mentre mordi un bastone alla liquirizia, stai pensando a cosa fare domani con tuo figlio / Il gelo nella notte copriva gli alberi di brina / Anita guardavi l’ora, aspettavi che arrivasse la mattina / Le notti passate al motel, sulla strada o in un bagno / Quante volte hai voluto salire sull’Everest, basta ti prego pianura / la pioggia martella l’asfalto e riflette le luci / Conosci bene quel marciapiede / con gli occhi tu cerchi sempre qualcuno / Anita, hai qualcosa di più da dirmi di quello che credono gli altri, in questa città”.
La musica dei Venticentoquarantotto è semplice ma, allo stesso tempo, efficace: ce lo dicono loro: “una chitarra con riverbero e chorus, un rullante secco con un basso cremoso, voci maschili e femminili che si fondono”, nient’altro che “musica pop che fa battere i piedi per terra”, ma con “parole che scavano nel profondo”. “Ma io chi sono, cosa ci faccio qui?”, canta Martina in Ombra, perché “nella tempesta sono una casa col tetto di lamiera, mi copro di calce e non penso più a niente / ma non ci riesco, c’è vento”. In quella Milano sempre più dura e indifferente alle esistenze che la abitano, c’è bisogno di nuove sfide che solo chi ha vent’anni riesce a raccogliere. Il desiderio di qualcosa di eroico ed irraggiungibile – “Andremo a combattere per l’indipendenza di qualche paese esotico, come romantici foreign fighter – cantano in L’insonnia del Grizzly – perché siamo gli ultimi del novecento” – ma anche il fare già esperienza che la vera sfida è proprio lì dove abiti, nel tuo quartiere, la guancia da porgere al vicino che ti sfida dalla porta accanto. E non sarà un caso se l’ultima canzone del disco, Morire Abbronzati, inizia con una citazione de “L’albero degli zoccoli”, il celebre film diretto da Ermanno Olmi: “in cima la terra è dura perché la terra fa la pelle, per difendersi dal freddo e non lasciar salire il caldo che c’è sotto”. “Là sotto la terra è calda?”, chiede il bambino in quel dialogo del film. “Sì, sicuro, per non far morire il seme”, gli viene risposto.
Quel seme che abita vicino alle radici degli alberi poste sotto la nostra casa, così che non c’è bisogno di spostarsi tanto per capire il senso della realtà: “forse la bicicletta è il mezzo migliore per andare verso quel che verrà / o per salire sulle montagne più alte e vedere meglio le città, lontane o invisibile come te”.
Ghisolfa è solo un punto di partenza, cinque tracce per un piccolo EP, ed una strada ancora tutta da percorrere, eppure ci sembra di poter dire che questi ragazzi sono partiti con il piede giusto. Basterebbe anche solo guardare le immagini del video del loro primo singolo – Ti ha dipinto Chagall – con quelle scene di una periferia di Milano vista dall’alto, quasi che ci fosse bisogno di arrampicarsi da qualche parte, per scorgere meglio la bellezza che contiene tante vite di confine. Perché siamo tutti cuori che, visti da vicino, sono così pieni di difetti e imperfezioni, ma condividono lo stesso desiderio di felicità. Sempre a caccia di un’Anita che abbia qualcosa in più da dirci di quello che credono gli altri.