Il 7 dicembre 2018 alle ore 18 Attila di Giuseppe Verdi inaugura la Stagione d’Opera 2018/2019 del Teatro alla Scala di Milano. Dirige Riccardo Chailly, che prosegue la sua ricognizione del repertorio italiano ripercorrendo gli anni giovanili di Verdi: Attila segue Giovanna d’Arco, che aprì la Stagione 2015/2016, e prelude a Macbeth. L’allestimento è affidato a Davide Livermore, che dopo il debutto scaligero con Tamerlano di Händel ha già collaborato con il Maestro Chailly nei mesi scorsi per Don Pasquale di Donizetti. Con lui la squadra formata da Giò Forma per le scene, arricchite dai video di d-Wok e illuminate da Antonio Castro, e da Gianluca Falaschi per i costumi.In scena Ildar Abdrazakov, al suo terzo 7 dicembre, veste i panni del protagonista; Saioa Hernández, che invece debutta alla Scala, è Odabella, Fabio Sartori è Foresto e George Petean Ezio. Francesco Pittari e Gianluca Buratto rivestono i ruoli brevi ma non secondari di Uldino e Papa Leone.



Dopo Giovanna d’Arco, Madama Butterfly e Andrea Chénier Riccardo Chailly apre la Stagione con Attila, confermando l’impegno a riscoprire il repertorio italiano nella sua interezza. Le direttrici di questo progetto culturale vanno prendendo forma nel corso degli anni: accanto all’approfondimento della formazione del percorso teatrale verdiano (Giovanna d’Arco, Attila, Macbeth), il belcanto (La gazza ladra di Rossini e Don Pasquale di Donizetti) e il Verismo (Andrea Chénier), tutti titoli che trovano eco in altre proposte di Stagione affidate ad altri artisti, sempre con un’attenzione particolare alle opere presentate alla Scala per la prima volta.



In evidenza rimane il progetto pucciniano con cui Riccardo Chailly riporta al Piermarini le opere del compositore di Lucca in letture che tengono conto delle ricerche più aggiornate: dopo Turandot, La fanciulla del West e Madama Butterfly sarà la volta della prima versione di Manon Lescaut (dal 31 marzo 2019) fino alla prossima inaugurazione di Stagione con Tosca.

Nona opera di Giuseppe Verdi, Attila va in scena al Teatro la Fenice di Venezia il 16 marzo 1846. Nel 1845 erano andate in scena Giovanna d’Arco alla Scala e Alzira al San Carlo di Napoli, nel 1847 sarebbe stata la volta di Macbeth al Teatro della Pergola di Firenze, I masnadieri al Her Majesty’s Theater di Londra e Jérusalem all’Opéra di Parigi. Si colloca quindi in un punto nodale dello sviluppo di un Verdi che aveva già alle spalle opere come Nabucco o Ernani e si preparava a debuttare sulla scena europea; anni di galera, ma soprattutto di sperimentazione e ricerca, sui soggetti come sulla forma drammaturgica.



Come sottolineato su questa testata in occasione della recente produzione dell’opera a Parma, fonte del libretto è la tragedia Attila, König der Hunnen (1809) di Zacharias Werner, singolare figura di poeta romantico che divenuto sarcerdote cattolico infiammò con i suoi sermoni le platee del Congresso di Vienna. Verdi, venutone a conoscenza attraverso le citazioni contenute in De l’Allemagne di Madame de Staël (che susciterà nel compositore anche l’interesse per Don Carlos di Schiller), incarica dapprima Francesco Maria Piave e quindi Temistocle Solera di trarne un libretto, che però non lo soddisfa: inoltre Solera, riparato a Madrid in un nuovo capitolo della sua esistenza rocambolesca, tarda a consegnare la versione definitiva. Verdi richiama allora il Piave che rivede tutti i versi e stende per intero l’ultimo atto.

Rispetto al dramma di Werner il libretto definitivo, radicalmente semplificato, attenua  il contrasto tra la brutale integrità di Attila e le moralità contraddittoria dei suoi avversari italiani. Verdi sbalza sullo sfondo storico le interazioni tra i personaggi, su cui si concentra ricercando sotto lo slancio eroico un sottotesto di fragilità o ambiguità psicologica. Così Odabella mostra nel corso dell’opera tratti di lirismo e vulnerabilità, e ugualmente la hybris spavalda di Attila è destinata a fare i conti con gli incubi e la forza del sovrannaturale. Del tutto inedita l’ambiguità di Ezio, valoroso generale romano che si scopre più che disponibile al compromesso, mentre più convenzionale risulta il solo Foresto. Per lui esistono due arie raramente eseguite per l’ultimo atto: Verdi scrisse infatti la romanza “Sventurato! Alla mia vita” e “Oh dolore!” in occasione della prima scaligera..

Attila rappresenta un punto nodale anche per quanto riguarda il coinvolgimento diretto del compositore nelle scelte riguardanti l’allestimento. Verdi indicò l’inserimento di particolari effetti di luce in corrispondenza della scena della tempesta e sorgere del sole nel Prologo e dedicò particolare attenzione alle grandi scene di massa, forse anche in vista di una possibile ripresa di Attila all’Opéra di Parigi. La descrizione del succedersi in scena di differenti condizioni metereologiche fu ispirata a Verdi dall’ode sinfonica Le désert di Felicien David che dopo aver furoreggiato a

Parigi approdava a Milano, alla Canobiana, nella traduzione del Solera.

La prima assoluta, il 17 marzo 1846 a Venezia fu un successo cui seguirono riprese a Trieste (città ancora più vicina ad Aquileia, dove si finge l’azione) e a Milano, dove il 26 dicembre 1846 aprì la Stagione di Carnevale. Qualche critico espresse riserve, ma l’entusiasmo del pubblico garantì ben 31 rappresentazioni e il ritorno tre anni più tardi in un nuovo allestimento, sempre per l’inaugurazione, che si inseriva in un clima accesamente patriottico dopo l’abdicazione di Carlo Alberto a Novara il 23 marzo e la resa di Venezia all’assedio austriaco (22 agosto).

Sotto il profilo musicale è un lavoro ineguale. Rossini (grande linguaccia) parlò “di Verdi con l’elmo in testa”, la critica inglese e francese (dove l’opera approdò in pieno 1848) parlò di “fanfara dei bersaglieri” – non certo un complimento. Pure il benevolo Guglielmo Barblan, nella monumentale “Storia dell’Opera” dalle Utet, scrisse che i “momenti strumentali descrittivi” rimasero “nella testa di Verdi”. Di impianto donizzettiano, presenta, grandi arie (quasi sempre con cabaletta finale), un coro importante e concertati di livello. Dà al basso, al baritono ed al soprano drammatico di coloratura modo di dare sfoggio al loro virtuosismo. Il tenore ha un ruolo, tutto sommato, secondario.

Nella seconda metà dell’Ottocento, quasi sparì dai repertori. Riapparve negli Anni Cinquanta. Negli Usa, divento un cavallo di battaglia di Justino Diaz e Beverly Sills. In Europa ed in Italia, di Samuel Ramey, Nicolai Ghiaurov, Pietro Cappuccilli, Ruggero Raimondi , Christina Deutekom, Cheryl Struder.   L’aria più nota è quella” “Dagli immortali vertici” di Ezio . La scrittura più innovativa , e più difficile, è l’entrata di Odabella distesa su due ottave con do sovracuto da prendere di forza. Ho spesso avuto difficoltà a comprendere perché sia tanto amata da Riccardo Muti e perché sia stata scelta come opera inaugurale della prossima stagione del Teatro alla Scala.

Nel 2005, recensendo su Milano Finanza un’esecuzione a Roma scrissi: Punto dolente è il maestro concertatore, Antonio Pirolli, a lungo alla direzione musicale dei teatri di Ankara e Istanbul. Temendo una direzione bersagliera, smussa un po’ tutto sino al fine. Dove di fuoco ne mette anche troppo. Nel maggio 2012 sempre a Roma invece, il piglio di Riccardo Muti si è avvertito sin dall’introduzione orchestrale in cui la tinta cupa dei violoncelli e dei fagotti ha correttamente dominato il golfo mistico. Ascoltai una buona concertazione di Attila da parte  di Riccardo Frizza nel 2010, una da dimenticare di Andrea Battistoni pochi mesi dopo. Ancora valida quella di Anton Gaudagno del 1976 (ne esiste una rara registrazione effettuata a Washington).

L’aspetto più importante di questa inaugurazione scaligera, quindi, sarà il piglio che Riccardo Chailly darà alla concertazione.