Arrivata tardi al Teatro dell’Opera di Roma (solo nel 1931), Le Nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart vi viene ora rappresentata spesso : vi ricordo ottime recenti edizioni nel 2015, nel 2005, nel 1998 e nel 1989. Al termine della stagione 2018-2019, viene presentato un nuovo allestimento curato dal britannico Graham Vick, un regista per certi aspetti più apprezzato in Italia che in patria, dove dirige la piccola Birmimgham Opera Company, specializzata in lavori sperimentali, anche se , nella sua lunga carriera, ha firmato sei spettacoli alla Royal Opera House. Queste Le Nozze di Figaro sono parte del trittico Mozart-Da Ponte commissionatogli del Teatro dell’Opera dove alcuni anni fa ha presentato un ottimo Ratto dal Serraglio.
Nella stagione 2017-19 la sua regia di Così Fan Tutte (ambientato in una scuola elementare britannica) venne, alla prima, fischiata. Esito non migliore ha avuto questo Le Nozze di Figaro al debutto la sera del 30 ottobre. La prossima stagione è in programma Don Giovanni : auguriamoci che non rispolveri lo spettacolo intriso di sesso, violenza e sangue visto di recente a OperaLombardia.
Non ho nulla contro ambientare Le Nozze di Figaro in tempi moderni e contemporanei. Ricordo due belle produzioni al Festival di Salisburgo (firmate rispettivamente da Claus Guth e da Sven–Eric Bechtolf ) ed una, alla metà degli anni Novanta , al Lauro Rossi di Macerata (firmata da Gustav Kuhn) che funzionavano molto bene. Questa di Vick (con scene e costumi di Samal Blak) ha poco a che fare con il libretto ed ancor con la partitura. Ci porta in una ricca ma “cafona” (si direbbe a Roma) casa degli Anni Settanta-Ottanta del secolo scorso, dominata da un quadro di un elefante e poi della maxi statua delle zampe di detto elefante, dove si svolge la vicenda. Don Basilio è un “trans”. Ben meritati i fischi alla regia ed all’allestimento scenico. Vick è comunque un professionista; quindi recitazione e movimenti di gruppi sono di livello. Per fortuna la parte musicale salva lo spettacolo.
Prima di andare alla parte musicale, alcune considerazioni su un capolavoro a cui accorre accostarsi con riverenza ed umiltà. Pur se messo in scena al Burgtheater di Vienna il primo maggio del 1786, ossia quattordici anni prima dell’inizio del nuovo secolo, Le Nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart viene inclusa, nelle storie dell’opera lirica, tra le quattro grandi commedie in musica del XIX secolo. Le altre tre sono Il Barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini I Maestri Cantori di Norimberga di Richard Wagner e Falstaff di Giuseppe Verdi. Il XIX è stato un secolo che sapeva meditare ridendo e facendo ridere anche nella forma più alta di arte scenica, la “musa bizzarra e altera” dell’opera lirica.
Il XX secolo, breve e crudele secondo la definizione degli storici e dei politologi, ci lascia unicamente un’immensa commedia in musica Il Cavaliere della Rosa di Richard Strauss, seguita (a distanza) da La Rondine di Giacomo Puccini e da lavori (come Il pipistrello di Johann Strauss jr e Vedova Allegra di Franz Léhar) più vicini al genere nuovo (e volutamente meno alto) dell’operetta che, a sua volta, anticipava il musical.
“Nozze”, anche se legata ancora ai canoni del XVIII secolo (i “numeri chiusi”, i recitativi accompagnati dal cembalo o dal forte-piano, l’ouverture che anticipa i temi dell’opera e la divisione in due atti , diventati, in effetti, quattro, ma mantenendo due soli finali, per la mera lunghezza del lavoro, oltre tre ore al netto degli intervalli), è a pieno titolo nel XIX secolo.
In primo luogo, il riso (ed il sorriso) sono intrisi di ambiguità. L’azione scenica (e la scrittura musicale e vocale) possono essere interpretati in vario modo: a) uno sguardo disincantato sulle debolezze umane, quali si manifestano in una “folle giornata” (ed in una ancor più folle nottata); b) varie declinazioni dell’amore (da quello coniugale a quello sensuale a quello erotico); c) una rivoluzione femminista e sociale (in cui la contessa e la propria cameriera si alleano per sconvolgere i piani del conte e far sì che, alla fine della giornata e delle nottata, ritorni l’ordine e ciascuno finisca sotto le lenzuola appropriate).
In secondo luogo, sull’intero lavoro domina la tolleranza (concetto con cui Voltaire spalanca il XIX secolo al motto della “massima intolleranza nei confronti dell’intolleranza”) e che, adombrata anche nel Barbiere, diventerà centrale nei Maestri Cantori ed in Falstaff, ponendosi come idee guida dell’Ottocento. E con la tolleranza, c’è inevitabilmente anche la melanconia per gli anni che passano e per gli habits and mores che svaniscono o più semplicemente cambiano. Nulla di ciò c’è nella produzione firmata da Vick.
Sotto il profilo musicale, Mozart riforma drasticamente (forse senza accorgersene) le “convenzioni” del XVIII secolo sin dalla ouverture in cui vengono adombrati tolleranza e melanconia pur nel colore e calore gioioso e festoso che introduce, e chiude, la “folle giornata”. L’aspetto principale, però, è la facilità con cui dai recitativi si scivola nei numeri musicali e, di converso, dai numeri musicali nei recitativi. E’ un procedimento geniale in cui si mantengono i “canoni” dell’opera buffa e del dramma giocoso ma, al tempo stesso, li si superano. Un procedimento che raggiungerà il suo apice poco tempo dopo in Così fan tutte.
Coniugando l’ambiguità dell’intreccio e del libretto con l’innovazione della scrittura musicale e vocale, Nozze si presta ad una vasta gamma di letture, comprensibili a pubblici molto differenti. Ho il ricordo di un’edizione piuttosto modesta della Washington Civic Opera che tuttavia incantò mia figlia (allora non aveva ancora 6 anni): pur stanca a ragione della durata del lavoro, si risvegliò al Deh vieni non tardar di Susanna e seguì incantata il finale secondo. Ho anche quello di una versione da “commedia nera” vista a Praga verso il 1995; di una edizione volutamente povera (di scene e di costumi ma non di idee) ideata da Giuseppe Proietti a Spoleto alla metà degli Anni 80, della splendida commedia di atmosfera creata da Strehler per l’Opéra di Versailles all’inizio degli Anni 70 e tenuta in cartellone per decenni alla Scala ed all’Opéra di Parigi (ed in maggio 2015 gustata al Teatro dell’Opera di Roma); della commedie a sfondo sociale (molto differenti) di Visconti (Teatro dell’Opera di Roma) negli Anni settanta e di Martone (San Carlo) nel 2006, del tocco delicato con cui la affrontò Quirino Principe, della pièce elegante (in costumi Anni Cinquanta) offerta da Gustav Kuhn al Lauro Rossi di Macerata all’inizio degli Anni Novanta. E di tante altre letture, tra cui almeno quattro viste ed ascoltate in quella vera e propria bomboniera che è il Théâtre de l’Archevêché.
Alla lettura scenica macchiettistica e visivamente poco attraente di Vick, si contrappone una buona lettura musicale. Il maestro concertatore Stefano Montanari proviene dall’Accademia Bizantina di Ravenna e ha già portato una differente produzione de Le Nozze di Figaro in tournée per diversi teatri “di tradizione” italiani. Ha affrettato un po’ troppo i tempi nella ouverture , ma successivamente ha concertato egregiamente.
Una vera sorpresa il basso baritono moldavo Andrey Zhilikhovsky nel ruolo del Conte; voce calda e ben impostata, unita a chiare doti attoriali . La sua Contessa è, per Roma, una scoperta: Federica Lombardi. Giovanissima già canta ruoli importanti al National Theater di Monaco. La avevo ascoltata nel circuito As.Lico,Co. Con un’emissione perfetta e fresca si è meritati lunghi applausi a scena parte in Dove sono i bei momenti. Vito Priante è uno sperimentatissimo Figaro che canta nei maggiori teatri europei. La sua Susanna è la giovane Elena Sanchez Perez, premiatissima in Germania nonostante la pessima scena e l’orribile costume, il suo Deh vieni non tardar ha incantato il pubblico. Molto abile la terza coppia di questa ‘folle giornata’: Patrizia Biccirè (Marcellina) e Emanuele Cordaro (Don Bartolo). Miriam Albano, giovane mezzo soprano, è uno spigliatissimo Cherubino.
In breve, un Le Nozze di Figaro più da ascoltare che da vedere.