“La musica rock è stata recepita come anti religiosa, in realtà è profondamente spirituale”: così dice Renato Giovannoli, docente di filosofia, saggista, autore del più poderoso scritto su Bob Dylan mai pubblicato al mondo, “La Bibbia di Bob Dylan (tre volumi, Ancora editrice, più di mille pagine complessivamente). Uno studio che oltre a essere una analisi su tutte o quasi le liriche dell’autore americano, ci dice una cosa che a molti, quasi tutti, era sfuggita, nonostante i segnali fossero disseminati in abbondanza dallo stesso Dylan in quasi ogni suo testo di canzone: il cantautore americano non è solo un Nobel per la letteratura, ma è anche il più grande esegeta della Bibbia vivente, l’unico che ha inserito nel corpo del suo lavoro centinaia, migliaia di passaggi dell’Antico e Nuovo testamento, passaggi che ha sfruttato per dare voce all’intimo desiderio del suo cuore, che ha attualizzato, riportando la Bibbia come linguaggio vivo e pulsante nel cuore dell’uomo moderno. “Il rock” dice ancora Giovannoli “fu recepito  come anti religioso, ma è profondamente spirituale”.



Non potrebbe essere altrimenti se, invece di fermarsi alla superficie, all’istinto pruriginoso di certi slogan, di certe ghetizzazioni ideologiche che soprattutto in Italia hanno preso il sopravvento, si riflettesse apertamente su di esso. Dylan nella prima fase del suo percorso artistico ha attinto, come i suoi colleghi del folk revival, dagli antichi blues, le ballate folk delle montagne, i gospel che erano canti, salmi, preghiere tratti letteralmente dalla Bibbia, prendendo tutto il pacchetto in modo per lo più in modo inconscio (la bellezza delle canzoni e il testo). Ma a differenza dei suoi colleghi quanto imparato da ragazzo ha sedimentato nel suo cuore risvegliando una coscienza religiosa via via nel corso degli anni diventando un tutt’uno con il suo corpus lirico.



E se nel periodo del grande successo mondiale (quello in cui gli artisti più popolari del mondo, i Beatles, dicevano che “Dylan ci mostra la strada”) tra il 65 e il 66, Dylan da anarchico rivoluzionario come lo è l’America giovane di quei tempi, opera il grande rifiuto della religione dei suoi padri, l’ebraismo, con i versi blasfemi di Highway 61 Revisited (“Dio disse ad Abramo uccidimi un figlio, Abramo rispose, ma tu sei matto”), è proprio la dipendenza dalle droghe per sostenere la pressione dell’essere la più grande star del mondo, che lo porta a una prima conversione dopo quella che Giovannoli definisce la sua “stagione all’inferno”.



L’album “John Wesley Harding”, uscito nel gennaio 1968 contiene oltre sessanta citazioni bibliche e almeno due canzoni “interamente scritte sul palinsesto biblico” spiega Giovannoli. E’ da lì che scatta una conversione dapprima quasi incosciente che andrà imponendosi sempre di più, grazie a uno studio impressionante della Bibbia nella sua completezza (tra i passaggi preferiti che Dylan ama citare nei suoi testi ad esempio il Cantico dei cantici e le lettere di San Paolo, ma soprattutto, più di ogni altro, il libro dell’Apocalisse). E’ “il grande codice” come si definiva nel medio evo la Bibbia, che diventa il codice per scardinare l’ignoto desiderio che pulsa nel suo cuore e di tutti gli uomini, l’unica chiave per entrarvi dentro: “Per Dylan da allora, non conta più scegliere politicamente la destra o la sinistra, ma il sopra (Dio, ndr) e il sotto (l’umana condizione, ndr)” dice Giovannoli.

Questo, come si vede nello scorrere dei tre volumi, non significa mettersi il cuore in pace: come sa benissimo chi ha fede, a meno che non sia un cardinale con l’attico da 200 metri quadri, significa un tormento esistenziale durissimo, una lotta continua giorno per giorno, per verificare se veramente la fede corrisponde alla verità della nostra vita. Per Dylan sarà sempre così, un desiderio impossibile da contenere fra crisi, passi in avanti e indietro, fughe di lato verso l’esoterismo e la magia, la donna intesa come la Beatrice di dantesca memoria che si rivela l’ennesima illusione, grandi rifiuti e commossi ritorni alla casa del Padre. E’ come se Dylan, attraverso la Bibbia, studi a fondo l’anima profonda dell’America, che su quel libro fu fondata, per darsi una risposta esistenziale. Ma lo fa mescolando le carte, giocando e confondendo l’ascoltatore, portandolo con sé oltre i confini di una esistenza tranquilla e incolore.

L’adesione con grande scandalo degli ebrei e dei progressisti liberal al cristianesimo evangelico, che Dylan affronta in maniera quasi fondamentalista: o tutto o niente, sembra dire, ma è solo una tappa del suo percorso irrequieto.

E’ per comprendere le ramificazioni di questo cerchio della fede che ci è indispensabile la ricerca di Giovannoli. Quando si ascolta Bob Dylan, e quando lo si legge, bisogna sapere che ogni suo verso è sovradeterminato. “In una canzone apparentemente oscura” dice Alessandro Carrera, altro profondo conoscitore dell’opera dylaniana nella sua introduzione  “come Foot of pride, troviamo un leone e una donna (la Chiesa, ndr) che si veste da uomo, riferimenti al Padre Nostro e al tradimento di Gesù, gente di non chiara reputazione che canta Danny Boy a un funerale dove la terra si apre per inghiottire qualcuno dalla reputazione ancora peggiore, bisogna sapere che per Dylan una folk song vale la Bibbia e che la Bibbia è una folk song; bisogna sapere che Danny Boy è il profeta Daniele nella fossa dei leoni e che il profeta Daniele può essere un qualunque Danny Boy emigrato dall’Irlanda, bisogna sapere che nel mondo di travestimento e peccato descritto nella canzone  la sepoltura di Cristo avviene nello stesso spazio-tempo del funerale di un mafioso irlandese”.

La chiave di volta sta in un disco velatamente oscuro, dal punto di vista musicale non uno dei suoi migliori, “Modern Times”, che Giovannoli definisce il suo più religioso: “ma quanto più religioso, più impenetrabile, (è) un Dylan che non vuole dare le sue perle ai porci ed è disposto a parlare della sua fede, l’argomento principale delle sue canzoni, solo a chi ha orecchie per intendere”. In questo senso il brano conclusivo del disco, Ain’t Talkin’ potrebbe essere la sua canzone religiosa definitiva, suggerisce l’autore: “E’ una meditazione dolente e quasi litanica, accompagnata da una musica ipnotica, sulla dolorosa e contraddittoria condizione umana lungo la strada che dal Paradiso perduto conduce alla risurrezione di Cristo”.

Un lavoro affascinante dunque quello di Giovannoli, che apre a mille ipotesi e ci costringe a rivedere l’idea preconcetta che avevamo di Bob Dylan, di cui ognuno ha cercato di impossessarsi per ridurlo ai propri schemi. E’ la Bibbia, suggerisce, “il Grande Codice che ha plasmato il linguaggio e l’immaginario della cultura occidentale e di quella americana in particolare”  quello di cui a lui importa. La scomparsa nella cultura occidentale di questo Codice negli ultimi decenni non a caso ha dato vita a fenomeni come la Generazione X o i Millenials, giovani il cui urlo profondo e disperato di un significato continua ad alzarsi potente, ma senza sapere a chi indirizzarsi. Dio è stato ucciso e il grido si perde nei suicidi che ormai sono un fenomeno di massa nella società americana (ma non solo). A differenza della generazione di Dylan che aveva un Dio a cui rivolgere il proprio grido, oggi è rimasto il nulla.

Se Dylan è arrivato dove è ora è perché da sempre (non si spiegherebbe nel suo disco d’esordio, una raccolta di standard blues e folk, la presenza di un brano come In My Time of Dyin’, al tempo della mia morte, che nella voce di un ragazzino di appena vent’anni suona come presagio e profezia)i, ha concluso un patto con il Comandante Supremo. “Significa una cosa precisa: che Dio è in charge, è a capo del mondo” scrive ancora Carrera “lo controlla e lo dirige (a Dylan) come fa un buon capitano sulla nave accanto a quella convinzione strisciante di essere parte di un destino da compiere e che lo spinge a tener fede al suo impegno nonostante i tanti anni di militanza trascorsa. Io rimango on the road fino a quando mi regge il fiato, e tu mi fai arrivare dove nessun altro, nella nobile arte di scrivere e cantare canzoni, è mai arrivato”. Conclude Giovannoli: “Bob Dylan non è per le masse, è per qui pochi che desiderano approfondire tematiche profonde dell’uomo, come i grandi classici della letteratura”.