“You don’t like what I’ve become? What did you expect to happen?” canta John Grant in Diet Gum, una delle canzoni più estreme dell’ultimo Love is Magic uscito in ottobre. Ormai non c’è più da stupirsi della sua svolta musicale: “Ogni disco che registro è sempre di più una amalgama di ciò che sono. Più lo faccio, più acquisisco fiducia in me stesso e mi avvicino a fare ciò che immagino nella mia testa”.
John Grant ha stravolto la sua musica negli anni oppure è sempre stato quest’ultimo il genere a lui più congeniale? È lecito chiederselo perché ormai sono anni che progressivamente, album dopo album, ha voltato pagina e nelle sue canzoni le atmosfere più melodiche sono state sostituite da parti elettroniche e da basi campionate. Il John Grant dei The Czars ha messo in mostra, in realtà solo a pochi intimi, le sue doti canore e compositive. Il John Grant di Denmark e dei Midlake, quello che voleva cambiare il mondo “but I could not even change my underwear”, si è fatto conoscere e apprezzare come artista eccezionale ed unico nel suo genere. Il John Grant islandese, quello dei due album successivi, è invece quello che ha raggiunto il successo commerciale grazie una sferzata di genere più elettro pop. Infine il John Grant di Love is Magic di oggi ha definitivamente trasformato le atmosfere delicate e armoniose delle origini in suoni Synth Pop, dance ed elettrici.
Dopo diversi anni di assenza dal nostro Paese era doveroso presenziare alla sua unica data italiana consapevole però di andare a vedere qualcuno di diverso rispetto all’artista che mi ha fatto conoscere e innamorare della festa di compleanno del “Bar Mitzvah”, del “Tutti frutti special raspberry” del Marz e che mi ha fatto immedesimare in Sigourney Weaver “quando aveva da uccidere quegli alieni”. Pertanto la mia aspettativa era la stessa di chi va a vedere l’attuale formazione di Ritchie Blackmore in quanto Guitar Legend dei Deep Purple o Francesco Renga per il suo trascorso rock con i Timoria. Eppure la sera del concerto succede l’imponderabile, l’imprevedibile, l’imprevisto: parte dell’equipaggiamento e della strumentazione del tour, indispensabile per l’esecuzione di buona parte di Love is Magic, viene bloccato alla frontiera e non arriva a Milano. John Grant è quindi costretto a reinventarsi lo spettacolo, a togliersi la maschera e le piume d’oca ed uscire dalla gabbia che lo ha imprigionato nella copertina di Love is Magic per dare voce al suo repertorio più classico. I Magazzini Generali, discoteca milanese allestita per ospitare un frastornante e luccicante spettacolo elettronico, cambia pelle e si trasforma in un intimo Teatro di Broadway dove il palco rimane spoglio, le luci di scena basse e la Mirror ball spenta.
La scaletta del concerto, fino a quel momento nel resto d’Europa dominata dalle canzoni di Love is Magic, viene rivisitata e stravolta a favore di brani più melodici e armonici. Si ha quindi la fortuna di ascoltare TC & Honeybear e JC hates faggots da Queen of Denmark, di sentirsi raccontare la crisi di mezza età e l’incubo di Grey Tickles, Black Pressure e di assistere all’appello ambientalista di Global Warming. Sul palco il neo cinquantenne John dimostra di avere piena consapevolezza dei suoi mezzi e di essere il padrone della scena intervallando canzoni a racconti come quello del festeggiamento del suo compleanno sulle montagne russe “è buffo perché da altre parti si chiamano montagne americane”.
Anche le tracce di Love is Magic dal vivo, di cui abbiamo solo un piccolo assaggio sono una gradita sorpresa. Dopo le nuove Touch & Go e Is he Strange e la stupenda It doesn’t matter to him lo show si trasferisce in discoteca mentre il basso e la chitarra acustica vengono riposti nella custodia e vengono eseguite in sequenza Pale Green Ghosts, la nuova He’s got His Mother’s Hips e Black Belt. La voce emerge meno forte ma la musica pompa di più e ha un effetto esplosivo tanto da far ballare la gente in pista. Prima dei bis il ritmo e l’adrenalina scendono a favore della melodia e della poesia di Glacier e di una Queen of Denmark strappa lacrime. La voce potente (per la verità un filo raffreddata per tutta la serata) e avvolgente di John è la vera protagonista anche nei bis con la drammatica GMF e con ben tre brani di Queen of Denmark (Marz, Where Dreams go to Die e Sigourney Weaver). Un concerto indimenticabile perché davvero unica è la sua capacità di interpretare brani delicati, fragili e drammatici nello stesso tempo.
Nella semplicità dell’esecuzione, dopo tanta bellezza, cosa può avere spinto John Grant a fare un uso più estensivo della tecnologia anche a discapito della sua incredibile voce? Può essere semplicemente un discorso di attitudine e di gusto personale? David Byrne nella sua visione di “Come funziona la Musica” nel capitolo “La tecnologia plasma la musica” fa riferimento a come l’introduzione degli strumenti musicali sia da sempre strettamente legata alla tradizione e alla storia dei Paesi. Evidenzia però alcune eccezioni: “I sintetizzatori che si diffusero negli anni settanta e all’inizio degli anni ottanta erano svincolati da una cultura o una tradizione musicale d’origine. I bip e i gorgoglii che emettevano non rappresentavano lo sviluppo di alcuna tradizione esistente, e così… potevano essere incredibili strumenti di liberazione”. Con il Moog John Grant ha dato il via alla sua liberazione, al suo riscatto personale e musicale. La liberazione da quella gabbia, fatta di insicurezza, ostilità e solitudine che gli ha fatto vivere una infanzia difficile e che lo ha portato a girovagare per mezzo mondo. La Musica invece gli ha consentito di emergere, di trovare la propria dimensione nel mondo e di generare bellezza. Non poco per chi non sapeva cosa volere “I really don’t know what to want from this world”. Un altro fenomenale artista da inserire tra i salvati dalla musica.