Il Teatro alla Scala ha chiuso la stagione 2017-2018 con uno degli spettacoli di opera lirica più importanti dell’anno a livello internazionale: Fin de Partie di György Kurtág o meglio, per citare il titolo completo datagli dall’autore Samuel Beckett- Fin de partie, scènes et monologues, opéra en un acte.
Per quanto schivo e riservato, Kurtág è riconosciuto come uno dei più grandi musicisti a cavallo tra il Ventesimo ed il Ventunesimo secolo. Ha composto relativamente poco, in quanto molto impegnato in studio e didattica. Ha meritato numerosi premi, tra cui una dozzina di anni fa il Leon D’Oro alla carriera. Le sue composizioni sono brevi: l’ultima eseguita alla Scala il 21 novembre dura circa trenta secondi. Fin de partie è la sua prima opera. La Scala e l’Opera di Amsterdam la commissionarono circa otto anni fa; di anno in anno il debutto, pur inserito nel cartellone, veniva rinviato e si temeva che Kurtág (classe 1926) non riuscisse a completarla. Anziano e debole, non era presente alla prima del 15 novembre (io ho assistito alla replica del 22 novembre) e gran parte delle prove sono state fatte a Budapest sotto l’occhio vigile dell’autore e della moglie Marta, musicista anche lei, e, a detta del compositore, il suo più spietato critico.
L’eccezionalità dello spettacolo dipende da molte elementi, Tratta da un noto lavoro del teatro ‘dell’assurdo’ del Premio Nobel Samuel Beckett, a cui Kurtág ha assistito nel 1957, esule dall’Ungheria travolta dai carri armati sovietici, ed a cui il compositore aveva dedicato due brani precedenti negli Anni Ottanta e Novanta, l’opera presenta uno stile musicale unico che, pur essendo minimalista, fonde stilemi tratti da vari secoli di storia della musica – da Monteverdi a Bartók, passando per Debussy, Musorgskij ed anche il Verdi del Falstaff (opera amatissima da Kurtág). La ‘tragedia dell’esistere’ messa in scena da Beckett negli Anni Cinquanta (ed oggi poco rappresentata nei maggiori teatri) è proposta con un’orchestrazione scura ma con riflessi metallici e bagliori di luce (specialmente nella scena in cui due dei quattro protagonisti ricordano bei momenti della loro giovinezza). In buca dominano i flauti e gli altri legni, le percussioni, le viole ed i violoncelli, la celesta, il pianino con supersordino nonché strumenti tradizionali magiari come il cymbalon. Un’atmosfera plumbea in cui si muove la parabola di Beckett di una umanità alla deriva, desolata e senza scopo, destinata ad essere come il finale di una partita a scacchi, la mossa a cui non si può rispondere. Gli unici momenti di luce sono in qualche ricordo.
Marcus Stenz e l’orchestra della Scala danno una lettura struggente di una partitura che sembra fatta di brevi frammenti ma è elegante e curata come un ricamo delle Fiandre.
La vocalità è un lungo recitativo, o Sprechgesang, di quatto voci (un basso, un baritono, un tenore lirico ed un contralto). La musica e le parole si fondono perfettamente e se ne può gustare ogni sillaba senza ricorrere alla versione scritta (come è prassi alla Scala) sul dorso della poltrona di fronte alla vostra. Una scrittura vocale alla Monteverdi, Debussy e il Messiaen dell’opera Saint François d’Assise . Ciò comporta grandi capacità ed un lungo periodo di prove: Leonardo Cortellazzi, Hilary Summers, Fröde Olsen e Leigh Melrose hanno dato una prova straordinaria anche in quanto si cimentavano con una lingua (il francese) che non è la loro.
La regia di Pierre Audi, le scene ed i costumi di Christof Hetzer, le luci di Urs Schönebaum rendono a pieno il significato del testo e della musica. In breve, una produzione irripetibile. Mi auguro che dopo le rappresentazioni, tra qualche mese, a Amsterdam , venga ripresa da altri teatri e se faccia un DvD di alta qualità.
Kurtág non è per il pubblico avvezzo al melodramma. Alla quarta replica, la sala ed i palchi erano pieni; le gallerie pienissime. Dopo due ore ed un quarto senza intervalli, alcune file di platea ed alcuni palchi erano vuoti, ma gli applausi sono stati calorosissimi.
In occasione della prima mondiale di Fin de partie, la Fondazione La Scala e Milano Musica hanno esteso l’omaggio a Kurtág, con una serie di concerti. Il 22 novembre, nel Ridotto Toscanini del Teatro, ho avuto modo di gustare l’Ensemble ‘G. Bernasconi’ dell’Accademia Teatro alla Scala, diretto da Arnaud Arbet e con la voce di Hilary Summers: brani di Kurtág hanno fatto da cornice a brevi composizioni di Ravel, Boulez e Stravinskij . Un menu per palati raffinati.