Take the last train from the station/And keep my eyes open while I can/I hope we get back home by morning/See the sunrise on the desert once again
L’ultimo treno, l’ultima tratta di un viaggio che sta per concludersi, un’ultima alba che forse sorgerà troppo tardi. Robert Neal Fisher ha scritto questa canzone, Untethered all’indomani di una diagnosi medica che non lasciava scampo, nella piena consapevolezza di una malattia che aveva assunto il controllo, del suo corpo e della sua vita.
Non poteva, allora, che essere questa canzone a dare il titolo all’album luttuosamente definitivo della parabola umana ed artistica di Fisher e della sua creatura musicale, Willard Grant Conspiracy, cui ha dedicato con umiltà, tenacia e lucida visione, i suoi ultimi ventidue anni. E prima di andarsene, quel maledetto 12 febbraio dello scorso anno, è stato proprio lui a sceglierne il titolo, lui che diceva che trovare il nome ad un disco era sempre una impresa difficile, sospesa tra banalizzazione e incomprensibilità.
Sono quattordici brani, registrati in fretta nello studio di Dave Michael Curry in poche settimane, tra l’autunno del 2016 e l’inverno successivo, cui è seguito un lungo, e doloroso, lavoro di sedimentazione emotiva e di successiva rielaborazione sonica cui hanno partecipato alcuni tra i tanti Cospiratori che negli anni hanno dato vita al progetto collettivo Willard Grant Conspiracy. Un progetto aperto di anarchia creativa controllata, con il baricentro da sempre poggiato sulla potente visione narrativa di Robert Fisher, il cui epitaffio viene oggi scolpito grazie all’amorevole e lucida dedizione di Curry, che ha portato a sintesi definitiva ciò che proprio Fisher aveva nel cuore.
E’ un lavoro multidimensionale Untethered, e in questo in realtà non differisce dai lavori precedenti, dieci in tutto live e antologici esclusi, nel quale però, e non poteva essere diversamente, l’ombra di Robert Fisher abbraccia e detta, nella dolcezza ma anche nella rabbia del rimpianto, la costruzione collettiva delle composizioni. Sotto il profilo strettamente musicale, l’album prosegue nella ricerca di una dimensione sonora più semplice, avviata dalla band nel 2009 con l’album Paper Covers Stone e l’EP Trunk In The Attic e proseguita quattro anni più tardi con Ghost Republic. Un tratto di continuità rafforzato dal fatto che la metà esatta delle canzoni era già state scritta e registrata in via sperimentale, pubblicata poi nel 2014 in un dischetto autoprodotto, Dwell Time, disponibile solo ai concerti della band.
Untethered, mi raccontava Dave Michael Curry nei giorni successivi alla morte di Fisher, esplora le relazioni tra le persone, i sogni ad occhi aperti e i desideri, le svolte del destino, la fede, e soprattutto il senso della morte. E racconta anche di una bestia orribile, la Hideous Beast nella quale Fisher si trasforma nella traccia d’apertura, gridando la propria voce come mai prima nei WGC, una bestia che si nutre di mosche, sferzata da un tappeto rumoristico di feedback. Come un moderno canto maori, atto finale di una ribellione vitale contro le impazzite mosche tumorali.
Ma Untethered non è solo il disco con il quale accomiatarci da quel progetto irripetibile che sono stati Willard Grant Conspiracy, la chiosa perfetta di un percorso artistico brutalmente imperfetto. E’ un disco bellissimo in sé, agitato da passioni che oltrepassano i confini biologici della vita, declinate nell’ombra ritrosa del pudore di una narrazione che nella amplificazione sonica dei tanti contributi, gli archi di Curry come le tante chitarre di Steve Wynn, Chris Brokaw, Jason Victor, rivela tutta la propria fierezza e potenza, e, insieme, fragilità.
I dreamed last night I was blown apart and busted/Sidestepped my way into the path of a hurricane/For the first time in my life, I felt untethered/I wonder when I might feel that way again