Parte la musica, le note si distribuiscono con l’impressione di un battito quasi percussivo e la forza intima di un avvertimento.  Ogni strumento occupa una porzione definita di spazio sonoro, amalgamandosi uno con l’altro come per suscitare un impatto emotivo immediato.  Il tocco navigato e tagliente della produzione di Lele Battista è una benedizione per il disco d’esordio dei milanesi Ludovan, dalle prime sequenze sino all’ultimo accordo che lo chiude, nel momento in cui affiora una nostalgia piena di suspense.



In “Cicatrici” (disponibile esclusivamente su I-Tunes, Spotify e principali piattaforme streaming) a partire dalla bellissima foto di copertina di Marta Carenzi vive, si svela, muore e sembra in qualche modo risorgere l’esistenza come energia e frontiera tra il lasciarsi vivere e l’amare senza riserve.  Il gruppo (il nome Ludovan è una contrazione del nome del celebre musicista citato a più riprese dal protagonista di “Arancia Meccanica”), un quartetto di ragazzi di stanza in quei dintorni del capoluogo lombardo pulsanti e affamati di musica, si avvale della chimica tra il frontman, compositore e chitarrista acustico Stefano Rizza – già jolly tuttofare delle più svariate realtà musicali folk e rock – e le sottigliezze del drumming sciolto e a presa rapida di Marco Chrappan.  E per non farsi mancare nulla ecco i contributi vivaci e pertinenti di Francesco Farina alla chitarra elettrica, Francesco Ravasio al basso e dello stesso Lele Battista in qualità di ospite di lusso a piano e tastiere, nonché di co-arrangiatore insieme al gruppo stesso.



Il disco – un EP di cinque brani per un totale di venti minuti – potrebbe essere letto sia come un concept preterintenzionale su valore e disvalore delle cicatrici esistenziali, che come un più ordinario ma non casuale racconto di vite lacerate che si incontrano.  In entrambi i casi attori della scena le due diverse metà del cielo.

Si prendano le prime due canzoni.  C’è l’inizio rappresentato dalla Dove sei di quei ritmati palpiti introduttivi di cui sopra, c’è soprattutto un uomo che vive e si sorprende continuamente in attesa di qualcosa o qualcuno.  Per contro in Regina di cristallo c’è una donna che facendosi scudo della sua bellezza e di status simbolici autoprotettivi (“ammira la bellezza irraggiungibile di una Regina che si fa chiamare Mia), sogna un imprevisto che le potrebbe far abbandonare il suo eremo.  In mezzo l’attenzione viene puntata sull’impatto della convulsa quotidianità sulle esistenze dei protagonisti.  C’è l’emorragia di autocoscienza di Presente e la difficoltà di trovare il vero se stesso di Umani, situazioni e vicissitudini in cui il soggetto potrebbe essere indifferentemente l’uomo o la donna di questo cortometraggio musicale.  C’è infine l’ipotesi dell’imprevisto incontro tra i due protagonisti nella conclusiva Pullman.



Musicalmente si tratta di venti minuti perfettamente bilanciati, forti di linee melodiche rifinite al millimetro e di prima scelta.  Da una parte i ritmi medio-sostenuti di Dove sei, Presente e quelli più incalzanti e ironici di Umani, portano in primo piano la scrittura di un Rizza che offre un personalissimo contributo all’ultimo new wave revival, mediando i disincanti tipici dell’ultimo grido (Perturbazione) con le sue radici folk e una certa teatralità piena e drammatica sulle tracce di un Giulio Casale.

Sull’altro versante due brani intimi di particolare profondità, dalle movenze fiabesco-nostalgiche di Regina di cristallo, allo struggente titolo di coda di Pullman dove l’uomo e la donna dell’ipotetico concept si incontrano in questa situazione sospesa tra cronaca e metafora, tra realtà e sogno. La chitarra acustica, complice di un pianoforte leggero e accorato, chiama a raccolta gli altri strumenti, la voce pastosa mescola allegria e mancanza in una splendida canzone che contiene tutto il mondo in meno di quattro minuti, tra apoteosi, illusione e invocazione.  E che curiosamente sembra saldarsi in maniera circolare all’inizio di Dove sei.  La donna incontrata e malinconicamente sparita ritorna sempre all’inizio di ogni nuova giornata, come simbolo per eccellenza della benedizione di essere vivi.