L’uomo è nervoso, agitato. D’altro canto è quasi dieci anni che non sale su di un palcoscenico davanti a un pubblico vero. In tutto questo periodo si è trasformato in un bambolotto di Hollywood, film insipidi, commedie d’amore banali, e poi non è neanche un grande attore. Lui ne è consapevole, ma il Colonnello Parker ha voluto così: anche se film stupidi, fanno sempre il pieno di incasso, dunque va bene così. Ma adesso, per la prima volta in dieci anni, ha alzato la voce. Ha fatto come voleva lui.
L’uomo ha anche un po’ di paura, ma d’altro canto è rimasto sempre lo stesso nonostante tutto: un country boy un po’ timido e di buone maniere, un ragazzo di campagna che faceva il camionista. Però è fighissimo, anzi bellissimo. E si è vestito come vuole lui: pantaloni di pelle neri, stivaletti neri, giubbotto di pelle nero sul petto nudo. Sembra uno di quei motociclisti balordi del film Il selvaggio di Marlon Brando. E quei capelli nero corvino, col ciuffo sulla fronte. E’ un po’ anacronistico come look, per quel periodo storico, la fine degli anni 60, quando tutti hanno i capelli lunghi, jeans con le toppe, camicie coi fiori. Ma lui non fa parte di quel mondo.
Lui appartiene a un mondo antico, quando giganti calpestavano la terra. Uomini venuti dal nulla, dalla povertà e dalla miseria, ma che avevano liberato al mondo qualcosa che terrorizzava tutti, che cambiava le regole, che metteva insieme i bianchi poveri del sud con i neri ancor più poveri. Avevano creato una musica sconosciuta anche a loro stessi, nessuno sapeva come chiamarla. Ma grazie a loro, e soprattutto a lui, il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Avevano reso concreto quel sogno che la vita potesse essere tutta un sabato sera, non un evento solo, ma senza fine. Era un sogno naturalmente anche questo e lui stesso ne avrebbe pagato il prezzo, pochi anni dopo soltanto. Ma adesso sentiva l’energia tornargli come dieci anni fa, la bestia che si impossessava di lui. Si guardò una ultima volta, gli era tornato quel ghigno spontaneo che aveva allora, il labbro sinistro leggermente sollevato, da autentico malavitoso, sprezzante. Salì sul palco. Quella che ne sarebbe seguita sarebbe stata la più grande esibizione live della storia del rock’n’roll.
LA SFIDA CON IL COLONNELLO PARKER
Elvis Presley quel giorno ha ottenuto altre due importanti vittorie. Il Colonnello Parker voleva infatti che si registrasse un classico show natalizio, interamente composto di canzoni di Natale, ma Elvis rifiuta: vuole suonare i suoi classici di inizio carriera. Sul palco poi, invece di musicisti di studio qualunque, vuole i suoi vecchi compagni di inizio avventura, quelli che erano con lui alla Sun Record quel luglio del 1954 quando registrarono That’s Allright Mama. Purtroppo il bassista Bill Black era morto tre anni prima, ma ci sono Scotty Moore alla chitarra, e DJ Fontana alle percussioni, anche se il batterista si era aggiunto nelle registrazioni successive. Fontana suona le bacchette su una scatola di cartone, come facevano durante le prove ai tempi. Senza saperlo, hanno inventato l’unplugged trent’anni prima che andasse di moda. Vengono filmati due show, a distanza di due giorni, il cosiddetto “sit down” in cui Elvis si esibisce seduto, e lo “stand up” in cui invece è in piedi, poi montati insieme.
Seduto o in piedi, Elvis è una furia che gronda sudore sulle fan ai suoi piedi. Nel primo show è incontenibile: si alza dalla seggiola, si risiede, si rialza, è puro rock’n’roll. Tra una canzone e l’altra divertenti monologhi in cui si toglie ogni sassolino dalle scarpe, come quando racconta di quella volta in Florida negli anni 50 in cui gli ordinarono di non muovere il bacino per tutto lo show per non eccitare sessualmente il pubblico. Lui allora si limitò a muovere un mignolo su e giù, ottenendo lo stesso risultato. Brani che aveva inciso modificandone il testo perché giudicati troppo “irriverenti”cambiandone anche il titolo: One Night torna a essere One Night of Sin, la notte del peccato, e Elvis riporta la canzone alla sua originale sensualità e trasgressione: si alza e si siede, cerca la cinghia della chitarra, geme e ulula, scatena se stesso come se in quegli istanti ne andasse della sua vita, come se fosse posseduto. E alla fine, con ironia micidiale, acconsente a fare una canzone di Natale, ma la “sua” canzone di Natale, Blue Christmas. E’ un natale di morte, di tristezza, il contrario di quello che Parker e tutti i pervenisti volevano. Lui lo fa diventare trascendente, la canta piano, con voce gutturale, fino a che i musicisti sul palco non si trattengono: “Suonala sporca!”. E lui lo fa terminando urlando. Nessuno lo aveva mai sentito cantare così, neanche nei suoi dischi migliori. E’ qualcosa di completamente nuovo, non è una ricerca nostalgica del passato: Elvis è andato oltre ogni aspettativa. Ogni verso è un fulmine.
THE COMEBACK SHOW
Che cosa era successo? Niente e tutto. Con apparente trascuratezza durante quella performance, Elvis dichiarò che “il rock’n’roll sostanzialmente è musica gospel o rhythm and blues”. Dimenticò di dire che nella sua voce diventava qualcosa di ultraterreno. “Elvis conosceva i più antichi inni religiosi” dichiarò Darlene Love, una delle coriste con le quali Presley eseguì anche un set di canzoni gospel, poi aggiunte alle due performance in pelle nera. “Ogni volta che c’era una pausa mi chiamava e diceva, ehi la conosci questa? Prendeva la chitarra e mi diceva, andiamo in quell’angolo a cantarla. Per puro piacere”. Perché Elvis conteneva l’anima dell’America più profonda: la spiritualità, la fuga e la ribellione, e il ritorno a casa.
Di quattro ore di registrazione, lo show finale venne ridotto a 50 minuti. Andò in onda il 3 dicembre 1968 alle 9 di sera: il 42% dell’audience televisiva lo guardò, una delle percentuali più alte della storia della televisione americana. Lo show si concludeva con una versione stratosferica di If I Can Dream, un brano ispirato da Martin Luther King sull’integrazione razziale, scritto appositamente su richiesta di Presley che anche in quell’occasione rifiutò gli ordini di Parker, che aveva chiesto una canzone natalizia. Alle sue spalle l’enorme scritta rilucente al neon “E-L-V-I-S”. Elvis, in quel momento, non era solo la voce dell’America: era l’America.
Elvis avrebbe smesso di fare film e sarebbe tornato a esibirsi dal vivo. Per un certo periodo, specialmente i primi show a Las Vegas nel 1969 e 1970, in maniera strepitosa. Poi anche esibirsi dal vivo, come erano stati i film, sarebbe diventata routine a cui però non sarebbe riuscito di staccarsi. Quando finalmente gli proposero una parte cinematografica di valore, quella per il film E’ nata una stella con Barbra Streisand, il Colonnello Parker pose il veto: non andava bene per l’immagine di Elvis che ne avevano i fan. La sua vita personale avrebbe cominciato ad andare a rotoli: il divorzio dalla moglie, la noia, l’assunzione di ogni tipo di farmaco anti depressivo, il cibo esagerato.
Sarebbe morto meno di nove anni dopo questo show, a solo 42 anni di età. Ma se oggi chiunque voglia vedere il re del rock’n’roll in tutta la sua gloria più autentica, non potrà che guardare queste immagini e ascoltare queste canzoni. Quando i fan, gli amici e i collaboratori di Presley pensano a lui oggi, è l’immagine indelebile del Re, decorato in pelle nera nel 1968, che governa il suo regno come l’uomo-tigre che si era autoproclamato.
Lo show della NBC Singer Presents… Elvis, conosciuto anche come ‘68 Comeback Special, il prossimo 30 novembre – in occasione del suo cinquantennale – tornerà nei negozi nella forma di un cofanetto celebrativo intitolato Elvis Presley – ’68 Comeback Special (50th Anniversary Edition). Il box sarà composto da 5 CD e 2 dischi Blu-ray.