Nella semplificazione del gergo giornalistico generalista si potrebbe parlare di un attesissimo ritorno dopo sette anni e mezzo di silenzio discografico.  Nella ridefinizione del concetto di presenza/assenza dalle scene, in un’epoca social in cui si può perfino seguire il lungo processo creativo dell’artista in diretta, si impone una prospettiva differente.



Patrizia Laquidara non se n’è mai andata, piuttosto ha fatto valere in questi anni un modo di essere diversamente presente.  E ci lascia la possibilità di cogliere i vari segni con i quali, in questi anni, ha diffuso quella strana magia elusiva che rientra nelle sue prerogative. 

Un 2011 che dopo la realizzazione del suo folk musical “Il Canto dell’Anguana” si svolge all’insegna della proposizione di canzoni edite e inedite come immediata ipotesi di lavoro.  Una aperta dichiarazione di intenti in occasione del Festival “La Parola Cantata” sull’avvio del processo creativo del nuovo disco, quindi una sequela infinita di esperimenti tra musica, poesia e immancabili serie di concerti.



Poi nel passato più recente degli ultimi tre anni – in mezzo alla sfilza interminabile di progetti e iniziative – l’ammissione da parte dell’artista di dover lasciare alla sua anima irrequieta e dispersiva tutto il tempo necessario per trovare il punto di approdo del nuovo lavoro.  Infine circa un anno fa l’annuncio della campagna raiser per il lancio dell’agognato nuovo album.

Eppure c’è un’immagine che colpisce a fondo più della stessa fredda cronaca dell’arrivo a destinazione ed è suggerito dall’immagine di Patrizia nella front cover del nuovo album “C’è Qui Qualcosa che Ti Riguarda” (quinto album in diciassette anni di attività).  In quello sguardo profondo e sempre curiosamente giovane e appassionato immortalato dalla fotografa Barbara Rigon, si svela l’anima ricercatrice incastonata nel giaccone crespo da viandante zingara.



Lo stesso abbigliamento che caratterizzava le smaglianti sessioni live del gennaio 2013 nella villa veneta di Sandrigo (un trio strepitoso con Tony Canto e Giancarlo Bianchetti) sembra chiudere oggi simbolicamente un cerchio.  Il qualcosa che riguarda la Laquidara e tutti noi parte da molto lontano, come un invito a condividere un percorso nella tenacia e pazienza di un quotidiano di oltre sette anni e termina con la confessione Il resto di tutto posta in chiusura dell’album.  Un post scriptum in piena regola, musica e parole in collaborazione con Joe Barbieri, in cui la nostra si rifà all’estetica squisitamente retrò dei primi album per ammettere di essere la stessa persona profondamente cambiata ma con la coscienza di portarsi dietro persone a loro volta profondamente cambiate.  Piano, orchestra, echi sudamericani, serpentine vocali tornano per una volta quelle di un tempo per segnare un distacco da una visione delle cose antica ma pur sempre cara (che fa capolino anche nella flessuosa Amanti di passaggio scritta insieme a Tony Canto).

E questa chiosa fa tornare l’ascoltatore all’inizio dell’album, suggerendo una rilettura immediata dopo il primo ascolto.  Un brano d’apertura C’è qui qualcosa che funge da breve intro che porta in sé l’anticipo della title track vera e propria (posta poco dopo la metà del disco) e più in generale da chiave per addentrarsi nelle singole canzoni del disco.  E i primi due singoli Marciapiedi e Sopravvissuti che scorrono in sequenza, dicono (con tanto di videoclip) di un disco segnato dall’assimilazione personale delle seduzioni offerte dal cosiddetto post-rock e da un elettro-pop nutrito di sperimentazione.  Ipnotica e quasi indefinita la prima, avvolgente e disadorna nella sua sensualità la seconda.  La voce dell’artista, per ampi tratti schizoide e ondivaga, mette in campo il vissuto personale e le sue complessità, dal desiderio di non arrendersi alla necessità di elaborare le ferite di incomunicabilità e incomprensioni.

Da qui prende corpo un viaggio ricco di saliscendi, capovolgimenti di fronte e suggestioni.  Momenti più soft e lineari come Amanti di passaggio e Acciaio culminano nella tribale C’è qui qualcosa che ti riguarda, fiera presa di coscienza che l’essenza intima della nostra umanità e degli incontri di questo nostro presente è molto di più delle macerie accumulate.  Fasi giocose e spumeggianti, tra iniezioni folk e favola cosmica come Nordestereofonico, L’altra parte dell’altra  e la già nota Pesci muti (testata in concerto sin dal 2011).  E infine una sequenza di brani elaborati e avventurosi che sciorinano un’ardita combinazione delle più disparate influenze.  Bello mondo, Preziosa, Il cigno e La luna portano in primo piano il talento del binomio Laquidara – Santimone (magistrale regista e decodificatore del sound della nostra) nel tracciare una mappa esistenziale senza censure e reticenze ripercorrendo istanze, sfide e suggestioni di avantgarde pop ed elettronica.  Un melange ricco ma ben congegnato tra scorci minimalisti, sontuose escalation elettriche, correttivi acustico-orchestrali e una voce più bella e polivalente che mai.  Il pregevole sodalizio con il citato pianista, arrangiatore co-produttore e alchimista Alfonso Santimone più una serie di apporti mirati (compagni di strada vecchi e nuovi come Daniele Santimone alle chitarre, Nelide Bandello alla batteria e Stefano Dallaporta al basso più interventi singoli e due mini ensemble di ottoni e archi), fanno il resto nell’incorniciare quello che è forse l’album più bello della Laquidara, vuoi per la dimensione della sfida raccolta e portata a termine in questo lasso di tempo o più semplicemente per quello svelarci la grandezza di un’artista eretica nei confronti della stessa propria immagine.