Quest’anno per la prima volta ho seguito X Factor, perché ho notato che la scelta dei talenti questa volta è stata buona. Davvero quei ragazzi si meritavano di stare lì, perché sono dei bravissimi interpreti. E quando ci sono bravi interpreti viene voglia di interpretare belle canzoni, e così abbiamo riassaporato “La voce del Silenzio” scritta da Mogol e interpretata magistralmente da Mina, i Pink Floyd, “Look at me Now” con una parte di sconvolgente bravura di Busta Rhymes (definito il rapper più veloce del mondo, probabilmente insieme ad Eminem), Whitney Houston, eccetera.. Inoltre il susseguirsi delle eliminazioni l’ho trovato meritocratico e anche le scenografie le ho trovate più artistiche quest’anno.
Ma dagli inediti ho iniziato ad avere un senso di perplessità e delusione, ho trovato un appiattimento del talento reale e in particolare la canzone di Anastasio (il vincitore, ndr) mi ha messo molta tristezza. Mi rattrista infatti che un giovane così talentuoso scriva di non volersi alzare dal letto, di voler vedere scoppiare la cappella Sistina e di nichilismo più totale.
Abbiamo bisogno di sentire questo? Questa cosa non è rock, nè hip hop, è un appiattimento e uno snobbare la vita.
Davvero la vita ci è talmente abituale che ne siamo assuefatti e niente più ci stupisce? Davvero l’unico nostro desiderio di felicità è un muro di casse per non sentire la voce del mondo? E’ questo tutto quello che noi giovani abbiamo da dire e da fare? Siamo davvero malati di cherofobia?
Con queste domande nel cuore mi sono interrogata un po’ sul senso di questo programma televisivo.
X Factor non è un programma che ruota attorno alla musica e neanche attorno solo ai soldi. È un’azienda, dove ci si preoccupa che ognuno abbia la sua parte, è vero, ma io sento che risponda soprattutto al bisogno di stare insieme in modo autentico.
Durante questi mesi tutti i partecipanti al programma vivono insieme in una sorta di comune, collaborano, ognuno fa la sua parte per costruire qualcosa di più grande, che è lo show. Questo è quanto di bello offre il programma ai ragazzi e a tutti i partecipanti al progetto. E’ un modus operandi che dovrebbe esistere sempre nel mondo reale.
Ed è bello anche il rapporto giudice-insegnante nei confronti dell’inesperto ma talentuoso allievo. Una specie di rapporto di bottega che parte dalla formazione e arriva al lavoro vero e proprio. Una cosa che dovrebbe decisamente tornare a ri-esistere nel mondo reale! Un trampolino di lancio, certo, bellissimo.
In questo mondo ideale-comunitario dovrebbe esserci la musica al centro, bisognerebbe fare musica vera, sincera, bisognerebbe che questi giovani si esprimano, esprimano tutta la loro nuova esperienza con canzoni ispirate.
Ma purtroppo questo sistema utopistico rivela tutta la sua corruzione, in quanto una parte di realtà è sempre presente in questo programma: l’industria discografica. Bisogna fare musica che venda, non musica. E sembra che a tutti nel programma vada bene così, d’altronde perché non dovrebbe? Si sta insieme, ci si emoziona, si è pagati bene, si ha visibilità.
Ma così tutta la bellezza svanisce in un lampo. E negli inediti si riscopre l’amara realtà in tutta la sua inettitudine: bisogna fare canzoni democratiche che piacciano alla massa, e la massa, si sa, non brilla di intelligenza (musicale).
E così il castello di carta cade, vedendo Cristina Aguilera – Naomi cantare una melodia lagnosa, e scoprendo che Anastasio è arrivato fino alla fine non per il suo talento ma perché scrive canzoni che rispecchiano perfettamente (e quindi vendono moltissimo) il disagio delle nuove generazioni: il nichilismo. Sulla stessa linea d’onda della “cherofobia” di Martina Attili.
E’ stato bello vedere interpretare grandi pezzi artistici da grandi interpreti, ma quando si è arrivati al sodo, agli inediti, si capisce che alla radio e nei dischi di questi poveri ragazzi si sentiranno le solite fregnacce (augurandomi però il contrario!)
Matt dei Muse, ospiti della finale, ha riassunto chiaramente il problema, alla domanda di Cattelan “Cosa consiglieresti a questi ragazzi?” Risposta: “Ascoltare i fan, il pubblico”. Un’artista dipendente è un artista bloccato, proprio come i Muse, stanchi e ripetitivi. Tutto torna.
Mi viene infine da chiedere. È così bella questa democrazia, nel senso, è così giusto accontentare tutti? O forse, come diceva Giorgio Gaber nella piece “La Democrazia”, questa modalità ci sta solo appiattendo, “e quando finalmente saremo tutti scemi allo stesso modo, allora la democrazia sarà perfetta”?