Non ci sono personaggi analoghi a Bruce Springsteen nella storia del rock. Non parliamo del punto di vista strettamente musicale e compositivo. In quel senso nella mia personale classifica dei più grandi artisti che prevede almeno 500 nomi, Springsteen si colloca a malapena al 50esimo posto, il che non è comunque male su 5 centinaia di nomi. No, è la sua originalità di uomo, giocata col sangue, messa in scena da oltre 40 anni a renderlo unico. Bob Dylan, che ovviamente è al primo posto di quella classifica, ha sempre preferito tranne rarissime eccezioni, nascondersi dietro un gioco di specchi, di metafore, di visioni oniriche, di sostituzione della personalità, di sdoppiamento di questa personalità in una sorta di perenne analisi junghiana del suo io, rifiutando di dire chi egli è al pubblico. Springsteen è l’opposto e non ha appunto paragoni in questo senso.
L’operazione On Broadway che finalmente appare nella sua complessità grazie al nuovo disco e che dice cosa è accaduto veramente su quel palcoscenico del Walker Theatre nella sua interezza, noi che lì non ci siamo potuti o voluti andare, dopo recensioni banali e racconti spesso superficiali dei “fan” che tornavano da New York, è una operazione senza precedenti.



Banale scomodare per giustificare ciò che non si è riusciti a capire paragoni con il teatro canzone di un Gaber: Springsteen on Broadway non è teatro canzone. Springsteen on Broadway è la restituzione al mondo dimentico di una realtà, quella dei club folk della New York anni 60 e ancora dei minstrel shows degli anni 20 e 30, che mettevano in primo piano “the naked man” prima di ogni cosa. Su quel palco per un anno sono apparsi e scomparsi, sono stati invocati e sono ridiscesi sulle strade di New York i fantasmi di Phil Ochs, di Dave Van Ronk, di Woody Guthrie, del giovanissimo Dylan, anche di Mr Bojangles, l’uomo bianco che si dipingeva il volto di nero per raccontare di tutti quegli ultimi, di cui Springsteen ha sempre cantato, che non potevano apparire, e tanti altri, uomini con una storia da raccontare. C’è in questo disco la stessa atmosfera piena di rammarico e strisciante speranza che si ascoltava nel disco “Tim Hardin Live”, ad esempio. Springsteen li ha invocati e loro si sono prestati gentilmente in una opera di revival del cuore e dell’anima dell’uomo. Springsteen per un anno ha invitato i suoi spettatori a uscire dal proprio io cinico, solitario, sperduto, spaventato a cui siamo ridotti oggi, per far sì che tutti insieme, spettatori e pubblico potessero uscire da quel teatro dicendo “IO”: io sono, io amo, io piango, io desidero, in una sorta di seduta analitica comunitaria che, lo ripetiamo, non ha paragoni nella storia della musica rock.
E’ impossibile ascoltare queste canzoni senza i monologhi introduttivi che poi non sono una introduzione in realtà, ma un continuum con la musica e viceversa, con momenti di autentico sbandamento emotivo difficile da ascoltare senza sentirsi chiamati a un altro da sé che giocando, apparentemente, con le nostre vite, ci mostra il destino della nostra esistenza. Lui lo ha fatto per tutti.
Le canzoni hanno così assunto una dimensione ultraterrena di pura trascendenza che fuggiva di mano anche a lui, dominate dalla voce usurata di un uomo che è oggi è anziano, a tratti stanco, a tratti una sorta di Tom Waits, quello dei bar fumosi e puzzolenti di inizio carriera in cui si svolge tutto lo spettacolo. Lo Springsteen al pianoforte di My Hometown farebbe piangere il più incallito bastardo sulla faccia della terra; quello di The Wish restituisce alla canzone la funzione di apertura al mistero che aveva perso completamente. Quello di Tent Avenue Freeze-Out allegramente e spudoratamete è l’uomo di New York che cerca nell’alcol, nella droga, nelle donne da bar qualcosa a cui attaccarsi. Ma soprattutto nel rock’n’roll: “l’essenza dell’arte, del rock’n’roll è uno più uno fa tre”, rivela.



Mentre ascolto questo disco non vedo più Springsteen, ma il Robert De Niro dei capolavori di Martin Scorsese sul palco, recitare la sua parte più grande e riuscita. E se Born in the Usa è il gospel dell’uomo tradito, ingannato, picchiato, ammazzato dall’ipocrisia calvinista e puritana che ha fatto dell’America un luogo di orrore, Born to Run, introdotta dalla recita del Padre Nostro, è il grido finale e liberatorio di chi ha fatto della sua vita resistenza e desiderio. Le canzoni acustiche come Thunder Road sono scarnificate a tal punto che perdono quasi ogni traccia melodica originale, sono parlate allo stesso modo dei monologhi e tracciano il punto più ferocemente sanguinante della disperazione di un artista che nella ricerca del padre ha trovato l’abbraccio del Padre. “On Broadway” è probabilmente lo spettacolo più coraggioso e spaventoso della storia del rock, secondo forse solo all’Elvis Presley del Come back Show, perché anche lì si consumava il desiderio di ritrovare se stesso davanti a un pubblico.
Non c’è un lieto fine a questa storia, perché la vita non ha mai un lieto fine, se non quel giorno che saremo chiamati ad esalare l’ultimo respiro. Springsteen non ha mai abbandonato la sua città di perdenti; lo dice lui stesso, è tornato a viverci. E per uno Springsteen che comunque ha vinto (la falsa vittoria del successo che non lo ha salvato da una depressione devastante) ci sono ancora e ci saranno sempre milioni di Douglas Springsteen seduti al buio in cucina a bere confezioni da sei lattine di birre da quattro soldi e a fumarsi la propria disperazione, il proprio desiderio annichilito dalle forze oscure del mondo là fuori, che ci spezzano la schiena e ci devastano la mente. Non c’è lieto fine, c’è la vita in questo disco, la vita tutta intera. E non possiamo che raccogliere il suo invito a prenderla sul serio.

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