Uno spettacolo affascinante ed emozionante che con il Billy Budd di Benjamin Britten, visto alcuni mesi fa al Teatro dell’Opera di Roma è candidato naturale come migliore produzione di opera dell’anno per il ‘Premio Abbiati’ (l’Oscar della lirica) per il 2018. Il Premio viene conferito nella primavera dell’anno successivo a quello solare di riferimento.
Si resta attanagliati alla poltrona per un’ora e tre quarti (la durata complessiva dei tre atti, correttamente rappresentati senza intervallo). Alla fine il pubblico è esploso non in applausi ma in vere e proprie ovazioni a tutta la compagnia per circa un quarto d’ora.
Era un pubblico insolito: quella diurna domenicale del 16 dicembre al Teatro di San Carlo a Napoli. Di fronte ad un titolo quasi sconosciuto – Kát’a Kabanová, prima delle quattro opere dell’ultimo decennio di vita di Leoś Janáče – e che era stato visto ed ascoltato a Napoli solo una volta, nel lontano 1968 per tre recite nel corso di una tournée dell’Opera di Stato di Praga – molti abbonati nella prima fila dei palchi avevano disertato ed erano probabilmente in uno shopping natalizio tale da costringere le autorità partenopee a chiudere i cancelli della metropolitana per sovraffollamento.
C’erano, però, molti ragazzi delle scuole secondarie e dell’università grazie al provvedimento in base al quale possono scegliere per pochi euro, l’invenduto andando in biglietteria mezz’ora prima dello spettacolo. E’ stato emozionante assistere all’entusiasmo di questi giovani per uno spettacolo in lingua morava che tratta dell’ipocrisia in una società piccolo borghese in cui la protagonista viene spinta al suicidio dalla suocera e da gran parte della comunità in cui vive dato che si considera colpevole di un adulterio che non ha commesso. Un dramma in musica stringato tratto da un romanzo russo della metà dell’Ottocento diventato teatro musicale raffinatissimo circa un secolo fa ma di cui in Italia ricordo rappresentazioni relativamente recenti soltanto a Catania, Venezia e a Torino.
Non è questa la sede per entrare nella complessità delle situazioni e dei sentimenti, nonché del significato politico, raccolti nei 95 minuti circa di Kát’a Kabanová, Sono temi che richiedono un saggio perché nella breve storia di una vecchia madre ricca ossessiva verso il figlio e la nuora (indotta a togliersi la vita) si riassume non solo l’ipocrisia di una società ma l’intero ‘secolo breve’ di progressiva e faticosa liberazione della donna da una condizione subordinata.
Andiamo direttamente allo spettacolo. In primo luogo alla regia di Willy Decker, uno dei maggiori registi tedeschi invitato poco frequentemente dai teatri italiani. Ambienta la vicenda in un luogo indeterminato nei primi decenni del Novecento in una scena unica claustrofobica, un soffocante locale in ligneo senza finestre in cui si accede, e da cui si esce, tramite leggeri spostamenti delle pareti. La scena ed i costumi –in bianco e nero e con varie gradazioni di grigio- sono firmati da Wolfgang Gussmann e creano il clima oppressivo in cui si svolge l’azione: protagonisti e comprimari sono come imprigionati in un ambiente sulle cui pareti spiccano le loro ombre. Di altissimo livello la recitazione ed i movimenti del coro.
Concerta splendidamente Juraj Valčuha., direttore musicale del San Carlo. Fa scoprire il sinfonismo che fa da tappeto ad un dialogo serrato in prosa in cui le parole diventano suoni ed anche le pause tra un dialogo e l’altro si trasformano in musica . Soprattutto dà gli attacchi ai cantanti, una prassi che molti direttori d’orchestra italiani sembrano avere dimenticato e che è essenziale per fare teatro in musica di qualità. Dalla buca sottolinea i temi dominanti ed esalta il recitativo melodico che domina il palcoscenico.
Di eccelso livello la compagnia di canto. Nella diurna domenicale la protagonista era l’olandese Barbara Haveman, un soprano drammatico che due stagioni fa salvò letteralmente la produzione (con regia di Carsen e Chailly sul podio) de La Fanciulla del West alla Scala: è una Kát’a a tutto tondo nei tentativi di stabilire rapporti coniugali con il marito (il tenore Ludovit Ludha nei panni di Tichon Ivanyč Kabanov), nell’effusione e trasporto, durante una lunga assenza del coniuge, con il giovane Boris Grigorjevič (il tenore Magnus Thedor Vigilius) e nella sua interazione con l’oppressiva suocera. Quest’ultima, vera deuteragonista , è Gabriela Beňačková che per decenni ha cantato e recitato il ruolo della protagonista nei maggiori teatri del mondo ed anche nella registrazione di riferimento diretta da Sir Charles Mackerras. Con il passare degli anni, la sua vocalità è giunta ad un registro grave; ora è un ottimo contralto ed una suocera bigotta, possessiva (nei confronti del figlio), ossessiva (nei confronti della nuora), dominatrice (nei confronti della comunità in cui vive) . Tra gli altri , tutti molto bravi, spiccano, il basso Sergej Kovnir (Savël Dikoj), il mezzosoprano Lena Belkina (Varvara) e il baritono Boris Stepanov(Kudrjás).