Attila di Giuseppe Verdi ha inaugurato, con grande successo, la stagione di lirica e  balletto 2018-2019 del Teatro alla Scala. Una “prima” che non aveva un esito simile da anni. E’ iniziata con tre minuti di applausi al Capo dello Stato quando ha preso posto in quello che fu il Palco Reale (un segno di rispetto e fiducia od anche un invito ad intervenire nella delicata situazione politica che attraversa il Paese?), contrappuntata da applausi a scena aperta nei momenti più importanti e conclusasi con dieci minuti di ovazioni al calar del sipario. Le ovazioni erano dirette a tutti coloro che hanno collaborato alla riuscita di questa inaugurazione con un titolo che non è conosciuto come uno dei migliori del compositore.



Un unico neo: il poco appropriato sventolio di un tricolore in un momento del prologo e nel finale. Come ho avuto modo di dire su questa testata in ottobre in occasione di una produzione dell’opera al Festival Verdi di Parma, cinque delle sue 27 opere (I Lombardi alla prima crociata, Nabucco, Ernani, La battaglia di Legnano, e per l’appunto, Attila) vengono iscritte al filone “patriottico” che, in quell’epoca, infiammava molto di più altri compositori dei Paesi europei in cui si compiva l’unità nazionale. A mio avviso, unicamente La battaglia di Legnano merita di fregiarsi dell’attributo. Nabucco vi è entrato di straforo: alla prima, nel 1842, venne osannato dalla stampa austro-ungarica come epopea della libertà e della religione (loro) contro la barbarie ed i suoi falsi idoli. Ernani è più libertario e rivoluzionario che patriottico. I Lombardi si inserisce addirittura in un solco anti-ottomano (ove non anti-islamico) — a cui, ad esempio, Gioacchino Rossini aveva dedicato ben cinque opere — allora alla moda a causa dell’irredentismo greco.



I lavori successivi di Verdi, specialmente quelli che seguirono la trilogia popolare, hanno ben poco di patriottico: Simon Boccanegra, Don Carlo e Aida riguardano la sempre più forte sfiducia nei confronti del potere dello Stato, Un ballo in maschera la corruzione del Palazzo; La forza del destino il pessimismo cosmico; gli stessi Vespri siciliani sfiorano appena i temi dell’unità nazionale e della liberazione dallo straniero e si concentrano su quello — a Verdi, che non hai avuto figli adulti, carissimo — dell’amore paterno e, di converso, filiale. Inoltre, Verdi amava vivere nella Milano austro-ungarica e costruì la sua villa a ridosso del confine con il gretto e pettegolo Gran Ducato di Parma e Piacenza.



Attila è tratta da uno scombinato libretto del tedesco Zacharias Werner, risistemato, alla peggio, da Temistocle Solera e da Francesco Maria Piave. Il punto centrale è nello scambio politico tra il generale Ezio che appoggerà Attila nella conquista del resto del mondo se l’unno gli lascerà l’Italia (che intende unificare), ma questa vicenda viene inserita in una riedizione lagunare (siamo ad Aquileia) di Giuditta ed Oloferne; Odabella, con la complicità del fidanzato, irretisce l’unno e lo ammazza. Ho più volte detto che considero l’opera più patriottica per gli austro-ungarici che per i futuri italiani: il re unno è il personaggio più positivo ed è tradito da tutti coloro con cui viene in contatto.

Sotto il profilo musicale è un lavoro ineguale. Nella seconda metà dell’Ottocento, quasi sparì dai repertori. Riapparve negli anni Cinquanta al Maggio fiorentino grazie a Bruno Bartoletti. Negli Usa diventò un cavallo di battaglia di Justino Diaz e Beverly Sills. In Europa ed in Italia, di Samuel Ramey, Nicolai Ghiaurov, Pietro Cappuccilli, Ruggero Raimondi, Christina Deutekom, Cheryl Struder. L’aria più nota è quella “Dagli immortali vertici” di Ezio (un duttile George Pedean in questa produzione scaligera). La scrittura più innovativa, e più difficile, è l’entrata di Odabella (una splendida Saioa Hernandez) distesa su due ottave con do sovracuto da prendere di forza.

Un grande merito della direzione musicale di Riccardo Chailly è di avere dato coesione ed unità ad un lavoro di transizione. Verdi, allontanatosi dalle sue prime opere (di stampo donizettiano) in cui “scene e arie ABA” erano intercalate da duetti, cori e concertati ai finali degli atti, evolve, con Attila, verso quello che diventerà il melodramma della trilogia popolare (Rigoletto, Trovatore, Traviata). Le grandi arie (quasi sempre con cabaletta finale), il coro e i concertati sono uniti da un sinfonismo orchestrale non di mero collegamento che fornisce atmosfera e colori al dramma. Ciò è accentuato dalla lettura a tempi dilatati di Chailly.

Come da prassi dell’epoca, libretto e partitura offrono al basso, al baritono ed al soprano drammatico di coloritura modo di dare sfoggio al proprio virtuosismo; il tenore ha un ruolo, tutto sommato, secondario. Il tessuto orchestrale, magnificamente scavato da Chailly e dall’orchestra, fa sì che non si tratti solo di una successione di “numeri” ma di un dramma musicale a fosche tinte. Il piglio di Riccardo Chailly si è avvertito sin dall’introduzione orchestrale in cui il colore dei violoncelli e dei fagotti ha correttamente dominato il golfo mistico. Ci sono lampi di luce sono nella breve scena in cui appare il Papa con il suo corteo. Di ottimo livello, poi, l’equilibrio tra buca e palcoscenico.

Molto belle tutte le voci di cantanti con grandi capacità attoriali. Ildar Abdrazakov è un Attila titanico; crudelissimo nel prologo e sempre più sofferto nel resto dell’opera sino al tragico finale; non ha arie impervie ma con la sua statura vocale (ottimo il fraseggio) domina lo spettacolo. Suo deuteragonista è la Odabella di Saioa Hernandez, un soprano di grande estensione (quasi “anfibio”) capace ci passare da vette altissime ad un registro profondo. Ezio è un bravo George Petean, che ha avuto una leggera défaillance nella grande aria del secondo atto. Un tenore generoso come Fabio Sartori è Foresto. Ottime la brevi prestazioni di Francesco Pittari (Uldino) e di Gianluca Buratto (Papa Leone) nonché del coro guidato da Bruno Casoni.

Parte non secondaria del successo è fa attribuirsi al team creativo: Davide Livermore (regia), Giò Forma (Scene), Gianluca Falaschi (costumi), Antonio Castro (luci) e D-Work (video). Non siamo in un’Aquileia da cartolina illustrata o da Domenica del Corriere ma in una città nordica distrutta da un violento esercito invasore nella prima metà del Novecento: potrebbe essere la Varsavia quasi rasa al suolo immortalata dai film di Andrzej Wajda. Nella seconda parte (secondo e terzo atto), la festa ha il connotato di un’orgia in un clima che ricorda La Caduta degli Dei di Luchino Visconti. Unitamente all’ottima recitazione, questa visione è in perfetta sintonia con la lettura musicale.

Uno spettacolo che può ben concorrere al prossimo Premio Abbiati, l’Oscar italiano della lirica.