Immaginate la situazione: un compositore francese arruolatosi come infermiere nell’esercito del suo Paese viene fatto prigioniero durante l’avanzata tedesca del 1940, con lui viene arrestato un altro soldato (un clarinettista) ed il loro comandante (un violoncellista); vengono portati nel campo di concentramento di Gorlitz dove trovano un compatriota violinista. In questo modo, è nato, nel 1941, uno dei capolavori delle musica del Novecento che ha anticipato gli sviluppi della seconda parte del secolo.



Il compositore-infermiere, e pianista, rispondeva al nome di Olivier Messiaen, il clarinettista a quello del suo commilitone Herni Akoka, il violincellista a quello del comandante Ètienne Pasquier ed il violinista a quello del soldato prigioniero Jean La Boulaire. Non erano usi a suonare insieme, a costituire un ensemble, ma erano dei grandi, e notissimi, solisti nella Francia d’anteguerra. Il cattolicissimo, ed umilissimo, Messiaen, nel raccontare come nacque il lavoro, disse che era stato consigliato dall’‘angelo che annuncia la fine del tempo’ e, quindi, dovette scrivere ‘un quartetto con gli strumenti, e gli strumentisti’ che aveva ‘sotto mano’. Così venne concepito, composto ed eseguito in prima mondiale (dietro i fili spinati di un campo di concentramento) il Quatour pour la Fin du Temps, il quartetto per la fine del tempo, una pietra miliare, come si è detto, della musica del Novecento. 



Viene eseguito di rado proprio perché pensato per quattro grandi solisti i quali lavorano insieme a ragione di circostanze eccezionali. Il Quatour è stato infatti presentato, sabato 10 febbraio, nella gremitissima aula magna dell’Università di Roma ‘La Sapienza’ nella stagione concertistica dell’Istituzione Universitaria dei Concerti, (IUC) da un ‘quartetto’ formato per l’occasione da quattro grandi solisti: Pietro De Maria (pianoforte), Marco Rizzi (violino), Enrico Dindo (violincello) e Alessandro Carbonare (clarinetto).

E’ un brano lungo più di un’ora, in otto movimenti (i sei giorni della creazione, il settimo del riposo che si estende per l’eternità ‘ della luce indefettibile e della ‘pace inafferrabile‘). Gli otto movimenti, certamente insoliti e fortemente innovativi per un quartetto, prendono spunto dall’Apocalisse di San Giovanni, a cui fanno riferimento le simbologie musicologiche citate. 



‘La fine dei tempi’ coincide non solo con la guerra mondiale, quale percepita in un campo di concentramento, ma anche con la sostituzione delle regole, e prassi, musicali occidentali con nuovi procedimenti, anche di derivazione asiatica, e la costruzione di specifiche scale caratterizzate da polivalenza tonale. L’effetto contemplativo e spirituale cercato da Messiaen nella propria musica viene realizzato principalmente tramite l’utilizzo di ritmi non retrogradabili, moduli ritmici non tradizionali (mediati dalla musica giavanese e giapponese) armonie non tonali. Con procedimenti analoghi sperimentava, più o meno, nello stesso periodo, Giacinto Scelsi ma non credo che Messiaen ne conoscesse i lavori, i quali, per di più erano inseriti in un contesto di mistica dell’Estremo Oriente, non di religiosità cattolica.

Non è questa la sede per un’esegesi del complesso lavoro. Occorre sottolineare come gli otto movimenti sono caratterizzati da grande rigore e da temi caratteristici di Messiaen (il cinguettio degli uccelli, l’evocazione di danze) e da sezioni essenzialmente solistiche per ciascuno degli strumentisti, nonché da una grande cura per il suono. Non mancano CD dedicato a il Qautour . L’esecuzione del 10 febbraio all’IUC meriterebbe di diventare un nuovo titolo del catalogo.

Il resto del concerto è stato dedicato ad un omaggio a Debussy nel centenario della morte: la rapsodia per clarinetto e pianoforte, una sonata per violincello e pianoforte ed una per violino e pianoforte.