No, non si tratta di canzoni dimenticate, messe da parte, o, peggio ancora, scartate, ma solo “riposte nell’attico della mente”. Che meravigliosa definizione, quella che Glen Hansard ha trovato, per descrivere i brani del suo nuovo disco. Canzoni come un bene prezioso, qualcosa ritrovato frugando in un vecchio armadio, o rovistando tra mille cianfrusaglie in soffitta; cose di cui non ci eravamo voluti sbarazzare, non così vistose da dover essere messe in bella evidenza nel salotto di casa, ma, allo stesso tempo, abbastanza preziose da dover essere riposte con cura perché non andassero perdute.



Si potrebbe partire da qui. Prima ancora di cominciare a discutere e ragionare sulla statura di Hansard come cantautore, sullo spessore delle sue opere, sul fatto che sia o non sia solo l’adorabile busker con la chitarra bucata e quella voce inimitabile di cui ci siamo perdutamente innamorati fin da quando lo abbiamo visto insieme alla “sua” Marketa Irglova nel bellissimo film Once.



Cominciare da qui, dunque. Semplicemente. Da una manciata di canzoni, incise a Chicago negli studi di registrazione dei Wilco quasi cinque anni fa, e poi riprese, nei Black Box Studios in Francia nella primavera dell’anno scorso, arricchite di nuovi testi, ma lasciate intatte  nella vitalità del loro suono: “mi resi conto di come la band aveva suonato bene ed ho pensato: “sono buone canzoni! Valgono qualcosa!”.

Effettivamente il suono di Between Two Shores, il disco di Glen Hansard uscito lo scorso 19 gennaio, è la prima cosa che balza all’orecchio dell’ascoltatore. Prodotto insieme a David Odlum, suo compagno nei Frames, è inciso con la band con cui siamo abituati a vederlo ai concerti, arricchita dalla presenza del pianista Thomas Bartlett (nel brano Your Heart’s Not In It, uno dei più belli del disco, che vede la partecipazione anche della Irglova), del batterista jazz Brian Blade (in Setting Forth, altro bel brano) e di Jimi Zhivago, che sottolinea, all’organo Hammond, voce ed armonie della chitarra acustica di Glen in Movin’ On.  



Il suono, appunto, è un’efficacissima miscela di soul e folk, capace di strizzare l’occhio a Van Morrison, senza dimenticarsi dei padri di sempre, quei maestri che portano il nome di Bruce Springsteen e Bob Dylan. Difficile, d’altra parte, rimanere indifferenti alle melodie cui Hansard ci ha abituati da sempre, alla dolcezza delle sue ballate così come all’intensità dei saliscendi della sua voce. E’ il suo indiscutibile punto di forza, quello che viene apprezzato anche da coloro che talora criticano l’apparente debolezza di alcuni suoi testi. Perché i testi, appunto, in quest’album sembrerebbero a prima vista se non deboli, certamente non memorabili. 

Il tema della mancanza di fiducia in sè (Setting Forth), della speranza dell’amante disperato (Time Will Be The Healer), dell’amore deluso, disatteso, finito (Why Woman, Movin’ On, Your Heart’s Not In It, One Of Us Must Lose), della speranza in una società migliore (Wheels On Fire), non sono forse sviluppati in modo da raggiungere vertici di poesia, eppure è lo stesso Hansard a spiegare, in una recente intervista a Rolling Stone, che “spesso non si cerca di scrivere grande musica o grandi liriche, ma semplicemente di trovare qualcosa che sia in grado di far sposare le due cose tra loro”.  “Non cerco di essere un poeta – confessa candidamente a Dan Hyman, il suo intervistatore – l’importante è trovare il modo di far saltar fuori la canzone. Se ci si specializza in una cosa, magari si fallisce in un’altra. E se si facesse in modo di non specializzarsi proprio in niente?”. 

Te lo immagini, Glen, mentre ride confessando candidamente la sua tecnica di songwriting, semplice e senza pretese, come quel volto che si allarga dentro il sorriso che abbiamo imparato ad apprezzare ai suoi concerti o nei mille angoli delle strade dove, ancora adesso, nonostante la raggiunta celebrità, si ostina ad improvvisare, da solo o con altri, una canzone. Una semplicità d’animo, la sua, più che una superficialità compositiva, che nasconde invece la saggezza dell’aver compreso che anche i grandi autori – Dylan, Springsteen, Cohen – non amano la complessità nonostante la profondità degli abissi e l’altezza delle vette che hanno saputo raggiungere: “erano veri maestri nei testi e nella musica, ma quante volte le loro canzoni sono apparse così straordinariamente semplici”.

Mentre i primi video delle nuove canzoni di Glen Hansard cominciano a circolare su YouTube, fanno la loro comparsa anche alcune brevi sequenze di The Camino Voyage, documentario che verrà proiettato al 12° Dingle International Film Festival nel prossimo mese di marzo, e che narra di una “moderna odissea celtica”, viaggio di 2500 chilometri compiuto in barca a remi nel corso di tre successive estati, lungo l’antica rotta che dall’Irlanda del Nord giunge sino a Santiago De Compostela. E proprio in quei tre minuti di filmato vediamo in azione anche Hansard, unitosi come rematore agli altri membri dell’equipaggio nel corso dell’ultimo mese di navigazione. Il richiamo al titolo del disco – Between Two Shores / Tra Due Rive – appare sin troppo evidente: si tratta di quel punto equidistante tra la partenza e l’arrivo, tratti di costa ormai scomparsi dalla vista dietro l’orizzonte, e che portano con sé tutta l’incertezza se sia meglio tornare indietro o proseguire il viaggio. Chi ha percorso almeno qualche tratto a piedi del famoso Camino di Santiago, come semplice sfida o, più profondamente, alla ricerca di qualche significato, in momenti dell’esistenza in cui desiderio e speranza sembrano parole vuote e perdute, sa quanto anche le migliori aspettative rischino di andare desolatamente deluse, se si perde di vista che esiste sempre una finis terrae per la quale valga la pena di viaggiare. E allora quel che sembra raccontarci anche Glen, con i suoi dischi e le sue canzoni, e con quel volto sempre intatto nella sua felicità di suonare e di cantare, sembra avere a che fare con questo. Quest’uomo perennemente in giro per il mondo, fin da quell’età di tredici anni, in cui perfino il preside della scuola che egli aveva abbandonato l’aveva incoraggiato a buttarsi fuori nella vita per trovare la propria strada, sembra avere a cuore soltanto una cosa: l’indomito desiderio di non stancarsi mai di vivere fino in fondo l’esperienza della vita, e di raccontarla a tutti, per condividerla.  E’ per questo che ad ogni suo concerto, alla fine si ritrova in mezzo al pubblico con la sua chitarra. Così come agli angoli delle strade, continuando ad essere il busker di sempre. Perché la dimensione dell’essere compagni di viaggio, del remare insieme lungo il viaggio di questa nostra vita, non corra il rischio di andare perduta. 

Dentro quest’ottica, allora, anche Between Two Shores merita molto di più di un ascolto distratto o della frettolosa attribuzione di una stelletta in più o in meno nel catalogo delle opere di Hansard. Un nuovo disco come un nuovo libro, invece. Che rinnova la nostra curiosità di leggere del suo e del nostro viaggio, senza il pericolo che, una volta riposto sullo scaffale, finisca per prendere polvere accanto agli altri. Perché quel disco e quel libro sono come frammenti, parte di un tutto sempre affascinante. Come ogni istante della nostra vita, quando, indipendentemente dal fatto che sia triste o felice, viene vissuto con pienezza.