Ricordo la prima volta che incontrai Stefano Barotti. La sua chitarra e quella del mancino Paolo Bonfanti ai lati di un camino, disposte l’una accanto all’altra ad abbracciare il fuoco. House concert a Courmayeur per un manipolo di amici, degno finale di un pranzo nell’hotel dell’amico Luciano Angelini, sommelier e discografico per passione, fondatore, insieme ad Alessandro Maggiori, dell’etichetta Club De Musique, che aveva già prodotto i primi due dischi di Stefano.
Fu una lunga ed affascinante giornata, alla fine della quale mi rimasero in mano due tesori da custodire con cura: la musica di uno dei più validi cantautori italiani e l’universo dei vini biodinamici. Già, perché le canzoni di questo artista toscano si affiancano da sempre ai vini dei produttori Triple A, sigla che raggruppa i viticultori che credono sia ancora possibile produrre senza fare ricorso alla chimica ed ai lieviti selezionati, che generano prodotti simili ad ogni latitudine, omologando il gusto del consumatore, non più in grado di riconoscere l’impronta del vitigno e la personalità del territorio e del vignaiolo.
La musica di Stefano è proprio come il buon vino, prodotto in maniera genuina. Lo racconta lui stesso: “il mondo dei vignaioli che lavorano la vite con rispetto, e rispettano di conseguenza chi il vino lo beve, rispecchia quel che dovrebbe essere scrivere canzoni. Rispettarle, accoglierle, non inquinarle, non mettere loro il guinzaglio e la catena. Cercare il buono, l’essenza, la bellezza, il meglio per una melodia o una rima”. Ed ecco che allora, dopo anni di concerti in cui le canzoni di Stefano si sono accompagnate a degustazioni, appare quasi inevitabile che il suo nuovo disco sia un concept album, fatto di brani che raccontano il vino, prodotto dal cantautore in collaborazione con la Velier di Genova.
Settembre è il quarto lavoro di Barotti, a tre anni di distanza dall’ottimo Pensieri Verticali e la sua avventura a caccia del bello continua. Perché è vero che quest’album si stacca per un attimo dal suo sentiero artistico, ma quel desiderio di correre dietro al vero non si è certo interrotto. “Siamo in un periodo orizzontale in cui il pensiero si è seduto”, mi aveva confidato tre anni fa, e “il pensiero verticale è quello che richiama alla bellezza, all’essere sempre curiosi, ad un amore per le cose”. E dentro le canzoni di Settembre l’amore per le cose trasuda dalle strofe di ogni canzone.
Si parte con Il Vignaiolo, e la voce di Stefano inizia subito a volare, sulle note della pedal steel di Joe Pisapia, immersa in quelle atmosfere elettroacustiche tipiche di certo folk rock americano che l’autore ha da sempre nel suo DNA. Dentro i versi di una delle più belle canzoni del disco c’è un mestiere che si tramanda di padre in figlio, un lavoro che è fatica e sudore, ma anche legame di sangue con una terra che alla fine donerà un vino capace di raccontare di una vita intera: “La veranda è silenziosa / le mie scarpe stanno lì / stanche come due soldati al freddo / sporche di vendemmia / (…) e adesso il sole picchia forte sopra la mia vigna / E ripenso ai temporali dell’inverno / che l’hanno innervosita / ma non sembra sia ferita / e gli amici brinderanno / bevendo il mio lavoro di quest’anno / per qualcosa rideranno / e sarà un buon vino / e sarà un buon vino”.
In Mosto la pedal steel è quella del neozelandese John Egenes; non meno efficace di quella del suo collega di Nashville, accompagna un brano dalla cadenza western. Il mosto è l’inizio di una storia, il già e non ancora, il vino che sembra raccontare le sue origini: “mosto nel tino / faccio da bozzo al vino/ sono polpa, pelli, semi e raspi / tu che m’impasti / fai piano / e non farmi piangere / che già quest’anno / mi è toccata la grandine / quando stavo nel grappolo non me l’aspettavo / ignaro”.
La Terra E La Vite, arricchita dal contributo di Vittorio Alinari, al flauto e clarinetto, e Giuseppe Rotondi, alle percussioni, racconta di un connubio tra terra, vite e agricoltore che ha il respiro di una storia d’amore. E’ il brano più lungo e musicalmente complesso del disco, dove la capacità narrativa di Barotti riesce ad esprimersi al meglio; terra e vite sembrano possedere un corpo e un’anima, vivono in relazione, lasciano che la mano del contadino ed il torchio non facciano male all’uva “madre del vino” che “conosce il palato, la gola dell’uomo”.
Il Vino Naturale è un accattivante swing che sembra uscito da un disco di Paolo Conte e si candida già ad inno della Triple A. Il pianoforte di Nico Pistolesi sostiene il ritmo, mentre la voce di Stefano fa cantare il vino, che si presenta: “io sono il vino naturale / libero come nel bosco un animale / mio padre ha tre A nel suo nome / artigiano, artista, agricoltore”. Un vino “da condivisione”, che “di sorso, in sorso, di bicchiere in bicchiere”, racconta la sua storia, di “talento, passione e memoria”; un vino la cui origine viene raccontata nella successiva Vendemmia, brano dalla musicalità quasi rinascimentale dove la dimensione è quella di famiglia – “sveglia, è vendemmia / bambini togliete le scarpe in fretta / che oggi si cammina sopra l’uva” – un luogo dove onestà e sincerità regnano sovrane: “è settembre, è vendemmia / niente trucchi nella vigna / né in cantina, né in bottiglia”, una famiglia che, proprio perché fatta da artigiani e contadini è fiera di cantare “niente chimica nei nostri vini”.
Anima e Legno è quasi una poesia, scritta insieme a Stefano Marelli, mentre la musica scende nuovamente a sudovest, lungo la west coast, quasi raccontasse di un buon vino californiano. Quello che esce dalla bottiglia non è un liquido qualunque, ma il frutto della passione di un’intera esistenza: “Ho messo l’anima e il cuore in una botte di legno – canta Stefano – un anno intero è trascorso / ne ho cavato conforto e calore / e un certo ritegno / il ritegno di giocarsi in un sorso / la faccia e le mani / non regalare ai maiali le perle / il caviale ai cani”.
L’ultimo brano a firma Stefano Barotti è Bevo Bene e sembra una canzone da cantare tra amici a fine sera. Simpatica ed ariosa, strutturata a mo’ di valzer ed abbellita dalle note bluegrass del banjo, ci dice che alla fine della storia resterà in piedi solo tutto ciò che è sincero: “non sopporto quando quello che ho nel bicchiere / non mi dice da dove viene / quando quel che bevo / del vitigno e della sua regione / ha perduto l’intenzione”.
Chiude l’album un blues dell’amico Jono Manson – Red Wine In The Afternoon – che, come d’incanto, ci scaraventa di nuovo a Santa Fe, New Mexico, in quegli studi di registrazione che videro venire alla luce le prime canzoni di Barotti, prodotte per l’appunto dall’amico Jono. E così settembre è ormai passato, l’inverno sta per arrivare, ma il vino rosso è pronto a farci compagnia: “Now the nights are getting colder / And winter’s coming soon / I’m gonna sit out in the sunshine / Drinking red wine in the afternoon”.
Racconta ancora, Stefano Barotti, che nel comporre canzoni è importante “essere a disposizione della canzone col proprio lavoro e non il contrario, aspettando di vederla pronta ad uscire libera nel mondo come fa il vino dopo la vendemmia, sperando in una buona stagione e ringraziando per una luna buona”. A giudicare da quanto si è potuto ascoltare sinora, le annate di questo cantautore sono sempre state buone ed anche il suo ultimo prodotto si dimostra genuino e di ottima fattura. E sarà forse merito del suo sorriso o dell’apparente semplicità del suo modo di cantare, il fatto che non riesca difficile continuare a seguirlo, assaporando ciò che è maturato, mentre aspettiamo che la sua vigna produca il vino di nuove canzoni. Perché la sua musica – come nel brano La Ragazza, inciso sul precedente disco, Pensieri Verticali – è proprio quella “musica nuova che passa ogni volta che spiove”, “un sole che bussa alla porta, lasciamolo entrare”. Sole che, dall’alba al tramonto di ogni giorno, scalderà di nuovo la vite e il grano, così che, luna dopo luna, si possa avere nuovo pane e nuovo vino. Per non smettere mai di ringraziare.