Era il primo gennaio del 2003 quando, dopo una lunga malattia, moriva Giorgio Gaber, insieme a Enzo Jannacci il padre di uno stile cantautoriale nuovo, moderno ma più di tutto uno stile che spaccava un modo ideologico di vedere la vita. In un’epoca di trasformazioni storiche enormi, la fine degli anni 50 e i primi 60, quando il boom economico portava l’Italia a un cambiamento sociale e culturale che avrebbe trasformato ogni cosa, Gaber e Jannacci erano gli unici che seppero guardare in fondo a questo tunnel e capire che quello che sarebbe successo avrebbe portato alla perdita di quei valori (solidarietà, umanità, famiglia, bene dell’altro e bene comune, gli ultimi, i perdenti) lasciando solo un tragico vuoto fatto di consumismo esasperato da una parte e di esasperazione politica sfociata nel terrorismo dall’altra. Ovviamente insieme a loro anche Pasolini, di cui forse si può dire i due furono l’anima musicale. In un brano come “Chiedo scusa se parlo di Maria” risalente al 1973 in piena sbornia post 68, Gaber dichiarava il primato dell’Io, della persona, della realtà: “Non è facile parlare di Maria ci son troppe cose che sembrano più importanti mi interesso di politica e sociologia per trovare gli strumenti e andare avanti mi interesso di qualsiasi ideologia ma mi è difficile parlare di Maria, la libertà Maria la rivoluzione Maria il Vietnam la Cambogia, Maria la realtà”. Davanti all’astrazione di quel periodo storico, Gaber affermava il primato della realtà.
Adesso la Fondazione Gaber, da sempre curata amorevolmente dalla figlia Dalia Gaberscik che ha sempre cercato di preservare e far conoscere alle nuove generazioni il lavoro del padre, pubblica un disco interamente prodotto da Ivano Fossati che contiene vecchi classici rimasterizzati in alta qualità ma soprattutto un brano inedito, composto nel 2002, il suo ultimo di sempre, Le donne di ora, che intitola anche il disco.
Un brano che sia per l’andamento musicale che per il testo stranamente ricorda proprio l’amico Jannacci, la sua tipica ironia un po’ cinica: “io dovrei essere il sesso forte e farle la corte ma non ci vuole molto a capire che farà tutto lei”. Un brano ancora attuale o forse ancora di più oggi nel descrivere il nuovo ruolo della donna moderna, che da giuste istanze di indipendenza e di parità sono diventate qualcosa “che paura che paura le donne di ora che paura che ho”. Una “donna evoluta affronta le cose con entusiasmo, guarda alla vita credendo più che altro al suo pragmatismo” e poi si finisce che “in una copia normale sostenga la propria ragione e anche nel gioco sessuale la competizione, dovremmo abitare parecchio più a sud”. Con un finale che mette in mostra un uomo che ormai non ha più alcuna stima e speranza per sé: “Le donne son state un po’ oppresse ma ora di meno dimesse hanno poco potere è ingiusto e volgare ma quando un giorno l’avranno Dio solo lo sa che cosa faranno”. “Le donne di ora, una canzone che farà sorridere ma anche pensare, dividere, mi immagino che ci sarà qualcuno che ne dirà male. Ma a quindici anni dalla sua scomparsa se una sua canzone facesse discutere sarebbe davvero un bel risultato” dice la figlia Dalia.
Il resto del disco copre tutta la carriera di Gaber, dal rock’n’roll di Ciao ti dirò del 1958 fino a L’illogica allegria passando per classici come Porta Romana e Com’è bella la città. Ivano Fossati promette che a questa seguiranno operazioni analoghe perché, dice, “i ventenni di oggi devono conoscere chi era Gaber”.