(A scuola) non avevamo il Maestro che invade, dischiude, che può anche distruggere per purificare e ricostruire. Mi mancava il Maestro carismatico, consapevole della posta in gioco, chi indicasse nuovi sentieri. Annaspando, cercavamo di non farci immiserire, di non vedere morire la poesia e la sensibilità per la musica, di non farci distruggere la speranza alle radici. Cercavamo di allontanare quella noia che soffoca il desiderio per il sapere e la voglia di comprendere“. O per dirla alla Bruce Springsteen, “abbiamo imparato più da un disco di tre minuti che da tutto quello che ci hanno insegnato a scuola“.



In poche parole, Antonio Papagni nel suo eccellente libro (“Dai Led Zeppelin allo Zen, CartaCanta editore, 324 pagine, 15,00 euro) dice tutto quello che c’è da dire sul perché una intera generazione, quella degli anni 70, è stata salvata dalla musica e soprattutto indica la differenza allucinante tra quella generazione e i giovani del terzo millennio. Se allora infatti la musica, i dischi, le canzoni aiutarono a colmare il vuoto educativo di una scuola nozionistica e burocratica e anche l’eccesso ideologico del post 68, incitando ad andare Oltre, a sfondare le porte del Mistero dell’esistenza, oggi la musica è sottofondo idolatrico fatto di ragazzine con le tette in vista e annoiati cantori della sfiga, che hanno rinunciato (per colpa anche oggi della mancanza di Maestri) ad appassionarsi alla musica intesa come ricerca di significato esistenziale. Prodotti plastificati creati in modo seriale, in cui nessuno cresce mai.



Non era così una volta, e Papagni lo ripete più volte: “Mi sembrava che questa musica rispondesse a un bisogno inconsapevole ma preciso: era la risposta al sintomo vitale di un conflitto. Stavo cercando quella musica che non si limitasse alla sola espressione del bello, ma che avesse un effetto tangibile sulla mia esistenza“.

Con una scrittura semplice, diretta, a tratti ironica, senza mai cadere nell’accademia fine a se stessa che rende illeggibili quasi tutti i libri di musica, questo volume si sviluppa su tre livelli: il passaggio dell’autore dall’adolescenza alla maturità, il clima culturale e politico degli anni 70 e soprattutto la musica. 



Per Papagni il big bang sarebbe stato il secondo disco dei Led Zeppelin, passando poi a immergersi come gran parte dei ragazzi dell’epoca nel progressive, da Genesis a Jethro Tull, da Banco del Mutuo Soccorso a Frank Zappa fino e soprattutto ai King Crimson e al grande sciamano Robert Fripp (l’opposto del sottoscritto, per quel che importa, ma che dolore leggere di aver dedicato una notte all’ascolto approfondito di “Deja Vù” di CSNY per poi regalarlo o leggere che “Bob Dylan era noioso” e che i Rolling Stones “con le loro orge, il loro cinismo gratuito e la loro droga non ci interessavano”): “Se è vero che uno è attratto da ciò di cui ha bisogno, Robert Fripp per me è stato la rivelazione“.

Il libro alterna la prima persona singolare al “noi”, ed è un’altra chiave di volta, la condivisione che si viveva all’epoca, gruppi di amici che si trovavano ad ascoltare il nuovo disco di turno, in assoluto silenzio, quasi monaci zen, per poi condividerne i pareri. A differenza di oggi anche qui, la musica era esperienza condivisa, non isolamento e fuga dalla realtà: “Ascoltare musica a casa era un rito. La musica come meditazione, come esercizio di contrazione nella dimensione meditativa di gruppo“.

Musica ma anche letture, la scoperta di Hemingway; cinema, Barry Lindon, “il capolavoro di Stanley Kubrick“.

Arriva il punk, la politica perde interesse, arrivano i cantautori impegnati come Finardi, arrivano libri “scritti male e brutti” come “Porci con le ali”, l’autore si accorge che la vita e anche la musica gli stanno passando accanto senza più “invaderlo” come prima. Ma arrivano anche Peter Gabriel solista e le magie soniche di Brian Eno e poi anche lo studio dello zen. Gli anni 80 sembrano illuminati da una sola luce, quella della sera del 27 maggio 1987 allo Stadio Flaminio di Roma, sul palco gli U2: “Tornammo a casa stremati dopo aver vissuto una delle nottate più indimenticabili della nostra vita“.

Un diario che continua fino a oggi di cui non vogliamo anticipare altro. Lo ameranno “i sopravvissuti” degli anni 70, dovrebbero leggerlo gli adolescenti: “Sentivo che nessuna opera d’arte può definirsi tale senza almeno una ipotesi di trascendenza, senza scommettere su di una vera presenza. La musica sta al centro del problema dell’uomo e dei suoi significati, della sua volontà di accedere all’esperienza metafisica o di rifiutarla“.