Questa è la storia del mago, un grande mago che è andato via troppo presto, la notte del venerdì santo di cinque anni fa. “E la storia del mago, del mago, e la vita, la morte la gente per bene”. Il mago era rimasto lì a lungo, in quel tendone del circo, tra lumini e ruote della fortuna, da solo perché “guarda che acqua che viene” e la gente, le famiglie, i bambini se n’erano andati a casa. Ma lui no. Continuava ad aspettare che tornassero e, sommessamente, cantava le sue canzoni anche se non c’era nessuno. “E la storia del mago, del mago e ciapa el treno a quattr’or de mattina”. Ma loro no: erano andati a casa, avevano da pensare al lavoro il giorno dopo, la soddisfazione di trovarsi la sera tutti insieme riuniti, puliti davanti alla televisione. Eppure il mago continuava a cantare delle loro e sue tristezze, della solitudine e della povertà, delle sconfitte e delle piccole vittorie, continuava a cantare del suo e del loro cuore. Cantava perché questa è la storia del mago “la chitarra è stonata la canzone non viene”. Ma mica si fermava per questo. “Poi di colpo si spegne tutta la luminaria e li vedi andar via con la testa abbassata e rimani da solo a parlare”. Hanno rinunciato a vivere. Invece di “parlare col mago ma pensa che acqua che viene”. Lui non smette mai di aspettare, il cuore sereno e fiducioso “che se c’è un padre eterno vacca boia domani è sereno”.
Quella notte del venerdì santo il mago sta male, molto male. Ma intanto pensa. Pensa a tanti anni prima quando lui e gli altri erano più giovani. A quando “c’era un bel sol che scaldava gli orti, l’era un bel sole e asciugava i morti… E io ridevo, e io piangevo perché t’avevo trovato; trovato te!”. Il mago pensa a quel volto sorridente come quello di un fiorellino e la tenerezza e la gioia diventano più forti del male. Gli viene in mente quello che ha aspettato tutta la vita: “T’avevo trovata!” pensa e tra le smorfie del male gli scappa uno dei suoi sorrisi, quelli che chi li ha visti non li ha mai dimenticati. “Ci vorrebbe una carezza del Nazareno” gli era capitato di dire una volta. Come una preghiera, quelle parole erano uscite fuori di getto, come sempre succedeva a lui, che mica stava a pensarci su, a filosofare: a lui la vita usciva fuori così, spontaneamente. Parole a colmare quel dolore che lo aveva accompagnato sempre, quel desiderio che si compisse un destino felice per tutti, anche per gente come i barboni, “roba minima, roba da barboni” si intende, mica chissà che cosa. Adesso tra luce e oscurità si sta chiedendo ancora una volta: “Chissà se è vero, chissà se è vero che insieme agli anni va via anche l’amor?”. Ma no. Non può essere vero.
L’amore rimane sempre, fosse anche in un angolino del cuore. Si deve solo riaccendere come le lampadine del circo. E ricorda quando prendeva il treno per Rogoredo, ricorda quello lì che non aveva i soldi per pagare le cambiali e povero illuso era andato a chiederli a un vecchio commilitone, avevano fatto la guerra insieme e quello gli aveva chiuso la porta in faccia. Bella roba gli amici. Manco una sigaretta ti danno: “Cià allora sta sigaretta me la dai o no? Non vorrei che stessimo qui tutta la notte io che chiedo la sigaretta e tu che dici che è l’ultima. Non siamo mai stati amici, no no lascia stare tu sei uno di quelli che se gli chiedono mille lire, dicono mi raccomando non se le beva. Cosa te ne frega a te se me le bevo o no, oscar della bontà”. Quante volte era capitato, quante volte l’aveva visto accadere là fuori del bar. E Mario dov’era? L’ha sentito gridare, agitarsi, spiegare, diceva: adesso mi alzo e vado ad aprire anche l’ultima porta. Anche il mago finalmente sta per aprire quell’ultima porta. E improvvisamente capisce.
Per pregare, dopo tutto quello che ha vissuto tra storie di miserie, sesso, abbandono, solitudine, bisogna che il cuore sia sempre stato in attesa. E il suo cuore è rimasto sempre aperto e in attesa. “Diceva lui di odiare l’amore, ma scoppiava il suo cuore”. Scoppiava di amore: “Tu non lo sai, ma quando ti accarezzo, la tua bella faccetta, così pulita, mi pare, mi pare di essere un signore, un signore che ha la radio nuova e nell’armadio la torta per i figli, che vengono a casa da scuola, e ti tocca viziarli; per te un’altra vestina, a te ti compero le scarpe”. Di che altro abbiamo bisogno in fondo? Nient’altro. Lui lo sapeva e ce lo ricordava sempre. Son cinque anni che il mago se n’è andato, ma non è andato via veramente. Se guardi bene, se hai il coraggio di andare fino in periferia, che al giorno d’oggi nelle periferie ci sono solo disgraziati arrivati da terre lontane e abbandonati da tutti che li schifano (chissà che canzoni ci avrebbe scritto su il mago), lo vedi che sta aspettando davanti al tendone di un circo che resterà sempre aperto. Ci aspetta con quel suo sorriso splendente fatto di tenerezza. Vuole cantarci le sue canzoni. Vuole darci la sua carezza. Ciao mago, quanto ti vogliamo bene. Veniamo anche se piove.