E’ il primo artista non appartenente al mondo della musica jazz o classica a vincere il prestigioso premio Pulitzer per la musica. E’ Kendrick Lamar, artista rap di colore a cui è stato assegnato lo scorso 16 aprile con la motivazione che il suo ultimo disco, “Damn”, “fotografa la complessità della vita per gli afroamericani”. 



Il premio, come è noto, nasce come onorificenza letteraria, il più importante nel suo genere in America, ma è suddiviso in sette categorie per Lettere, Dramma e appunto Musica. Joseph Pulitzer, ideatore dell’onorificenza, aveva infatti predisposto nel suo testamento una borsa di studio per la musica da assegnare ogni anno, in seguito trasformata in vero e proprio premio: “Per una composizione musicale importante di dimensioni significative scritta da un americano che abbia avuto la sua prima esecuzione negli Stati Uniti durante l’anno”. Il primo cantante a ricevere tale onorificenza è stato Bob Dylan a cui fu assegnato un Pulitzer per la carriera nel 2008. 



La vittoria di Lamar invece segna una novità da tutti i punti di vista. Per prima cosa dimostra ufficialmente che il rap è la musica del terzo millennio. In realtà è da decenni, dalla metà degli anni 80, che il rap si è imposto come la musica più di successo a livello commerciale in America: dozzine di premi Grammy e centinaia di milioni di copie vendute hanno dimostrato come il rap abbia superato e di gran lunga la musica rock e pop nel pubblico americano. E’ anche vero che dopo i primi esempi “antagonisti” di una musica che si proponeva contro il sistema e contro il razzismo con una formula musicale fortemente innovativa, il rap è diventato una espressione commerciale in tutti i sensi, una versione blanda oppure ridicolmente estremista con l’esaltazione dello stile di vita dei criminali, dei papponi, spesso maschilista (o al contrario la messa in mostra di chiappe e tette di tante ragazzette) e con contenuti musicali sempre più banali. Kendrick Lamar è l’eccezione che dimostra come il rap possa ancora avere un contenuto.



Nato a Compton California nel 1987, Lamar ha sempre toccato temi lirici e musicali di forte impatto, distinguendosi da tutti i suoi colleghi. In particolare l’album del 2015 “To Pimp a Butterfly”, lodato da artisti non solo hip hop ad esempio David Bowie, era un eccellente esempio di uso di jazz, funk, soul e ovviamente hip hop con testi che parlavano di depressione, alcolismo e spiritualità. Lamar, a differenza dei rapper fighetti non si copre il corpo di stupidi tatuaggi, non indossa collane d’oro, non frequenta i social. Quest’anno ha scritto la colonna sonora del film Black Panther, che è risultato uno dei massimi successi di botteghino di sempre, film in cui non mancano i riferimenti alla comunità afroamericana. Al festival di Coachella, da sempre appannaggio dei gruppi rock, Beyoncè si è dimostrata la regina incantando con un spettacolo di grande livello in cui i riferimenti alla cultura afroamericana erano continui citando anche Liliac Wine della leggendaria cantante Nina Simone. Ha senso dire come ha fatto il critico del Washington Post che “la musica rap è il più significativo idioma della musica pop moderna e che è il suono dell’America del terzo millennio”? Assolutamente sì. Non ci sono esempi di artisti bianchi pop e rock in grado di uguagliare l’importanza musicale e lirica di Kendrick Lamar al giorno d’oggi. “La sua musica è una conversazione implicita sulle eredità della schiavitù, della segregazione, della brutalità della polizia e di altre orribili ingiustizie che la nostra società non si cura di risolvere. In questo senso, la musica rap è il suono di una nazione distrutta che lotta per comprendere se stessa” ha scritto ancora Chris Richards sul WP.

It’s murder on my street, your street, back streets, Wall Street, corporate offices, banks, employees and bosses with homicidal thoughts” declama il trentenne artista afroamericano nel suo ultimo disco, “Damn” (quello che gli ha valso il Pulitzer) con una forza di denuncia che non si sentiva in America dai tempi del Bob Dylan degli anni 60. Il fatto che Lamar sia un caso autentico e non costruito a tavolino dall’industria discografica, lo dimostra il rifiuto di concedere a “Damn” il Grammy come miglior disco dell’anno da parte dell’industria stessa nonostante il plauso unanime della critica americana e il successo commerciale.  Se questa vittoria ci dice che la cultura musicale afroamericana viva un momento di splendore, ci dice altresì come quella bianca stia vivendo quello più deprimente. Ed è uno specchio della realtà sociale americana, dove accade la stessa cosa: per un Trump che diventa presidente, ci sono migliaia di Kendrick Lamar nei ghetti pronti a uscire allo scoperto.