Il pubblico del Teatro dell’Opera di Roma è normalmente molto tranquillo, ma alla prima della nuova produzione del dittico Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni e Pagliacci di Ruggero Leoncavallo è in buona parte esploso in proteste contro la lettura registica di Pippo Delbono, anche perché prima dell’inizio dell’opera e durante ciascun intervallo Delbono è intervenuto con un microfono per spiegare la “sua” concezione del lavoro. Tra le variegate urla: “Vattene via, egomaniaco” e “Ridateci Zeffirelli”. E anche peggio.
Diversi gli aspetti che rendono questo spettacolo importante, non ultimo il fatto che Cavalleria rusticana vide la sua prima assoluta proprio sul palcoscenico dell’Opera nel 1890. Sul podio del Costanzi sale per la prima volta il maestro Carlo Rizzi. Cavalleria rusticana, sul testo che Guido Menasci e Giovanni Targioni-Tozzetti trassero dalla novella di Verga, e Pagliacci, sul libretto che Leoncavallo ricavò da un fatto di cronaca, sono affidati alla lettura registica di Pippo Delbono. Il primo titolo è un allestimento del Teatro San Carlo di Napoli, mentre Pagliacci è un nuovo allestimento, con il quale il regista debutta all’Opera di Roma.
Molte volte ascoltando Cavalleria Rusticana ci si chiede perché la sua prima rappresentazione a Roma il 17 maggio 1890 travolse il teatro in musica italiano e azzerò di un sol colpo tanto gli epigoni del melodramma verdiano (di oggi non si rappresenta quasi più nulla) quanto il “grand opéra” padano (di cui ha resistito agli anni unicamente Gioconda di Amilcare Ponchielli – e neanche tanto bene). In effetti, si tratta sovente di allestimenti in teatri estivi all’aperto dove si gioca sulla notorietà dell’opera, sul suo carattere popolare e sanguigno, sulla facilità di metterla in scena con pochi interpreti (nonché con un’orchestra rimediata e spesso ridotta in organico rispetto all’originale).
Ascoltarla nel teatro dove debuttò, con una grande orchestra diretta da Carlo Rizzi con maestria e il coro guidato da Roberto Gabbiani, fa comprendere come fu un vero tsunami nel teatro in musica dell’epoca e come ancora oggi è un capolavoro assoluto. L’organico orchestrale è vasto, come lo richiedeva Mascagni (il quale – non dimentichiamolo – anche se sbarcava, male, il lunario facendo il capo della banda comunale di Bisceglie, aveva studiato la partitura de L’Anello del Nibelungo di Wagner).
Scarne le scene di Sergio Tramonti, semplici i costumi di Giusi Giustino. Vengono utilizzati per le due opere; quindi l’allestimento di Pagliacci è molto differente da quello zeffirelliano di recente portato in tournée in Medio Oriente dai complessi del Teatro dell’Opera di Roma. La regia di Pippo Delbono mostra, quindi, la sua provenienza dal teatro povero. Ed è particolarmente discutibile in Pagliacci dove, eliminando il palco per il “teatro nel teatro”, rende il secondo atto incomprensibile tanto più che è lui (peraltro quasi sempre sul palcoscenico) non Canio a pronunciare la battuta finale.
Carlo Rizzi offre una grande lezione di stile. Dai colori tenui del breve preludio, si passa alla sensualità della canzone detta “la Siciliana”, al grande coro antifonale per la Pasqua, al “largo” del dialogo tra Santuzza e Mamma Lucia, al duetto con toni epocali tra Santuzza e Turiddo al grande sinfonismo dell’intermezzo sino al “parlato” del finale. Cast di grande livello. Anita Rachvelishvili, un mezzosoprano di agilità al debutto nel ruolo di soprano drammatico, è una Santuzza che discende abilmente in tonalità gravi dopo aver toccato acuti da stratosfera. Alfred Kim è un Turiddu generoso con un registro di centro alla Corelli o alla Del Monaco. Anna Malavasi è un Mamma Lucia da manuale, Gevorg Hakobyan un Don Alfio duttile e Martina Belli una Lola di agilità.
Pagliacci di Ruggero Leoncavallo viene quasi sempre abbinata a Cavalleria. Ne segue, infatti, il modello, anche se non ne ha né lo spessore né il fiato. Al pari di Cavalleria è opera che parla immediatamente al pubblico, senza esigenza di mediazione. Tratta di un fattaccio di sesso e sangue in un villaggio calabrese che Leoncavallo sostenne di avere visto da giovane (ma la trama è molto simile a una pièce francese di successo in quegli anni. La Femme du Tabarin di Catullo Mendès), è scritta come una cronaca di un quotidiano di provincia e sfoggia due tenori, uno lirico e uno drammatico. È l’unica opera verista di Leoncavallo, il quale, coltissimo (anzi erudito) e più anziano degli altri, si dedicò a opere storiche (da grand opéra padano) a operette, trasformandosi ogni volta che si rivolgeva a un differente stile e a un diverso pubblico.
In questa produzione, Pagliacci è al tempo stesso sanguigno e pasoliniano. Grande attesa per il debutto di Carmela Remigio, nata e cresciuta con il belcanto, in un ruolo spiccatamente verista (Nedda); un’intelligente transizione vocale è in corso. Fabio Sartori è un possente Canio; Gevorg Hakobyan veste bene i panni di Tonio. Matteo Falcier e Dionisios Sourbis sono Beppe e Silvio.
Teatro pieno. Ovazioni per Anita Rachvelishvili e Fabio Sartori. Applausi calorosi per la parte musicale. Dell’accoglienza avuta dalla regia si è detto.