Billy Budd di Benjamin Britten ha debuttato a Roma (dove non è stata mai messo in scena) l’8 maggio. E’ un allestimento importante, coprodotto con i teatri dell’Opera di Madrid e con la Royal Opera House di Londra con la regia di Deborah Warner e la direzione musicale di James Conlon. Arriva a Roma poco più di un mese dopo aver ricevuto, sulla base delle recite a Madrid (dove ha debuttato), l’International Opera Award (l’Oscar Internazionale della lirica) nella categoria’nuove produzioni’. L’opera sarà in scena alla ROH Covent Garden di Londra tra circa un anno.



Il lavoro è tratto da un racconto di Herman Melville; scritto tra il 1888 ed il 1891 e pubblicato postumo nel 1924. Mentre la disorientante grandezza di Moby Dick è imperniata sulla sfida dell’uomo contro un universo in cui c’è posto solo per il mare, per le balene e per le stelle ma non per Dio, Billy Budd è una navigazione verso la straordinaria mitezza e la Fede in Dio: il mondo è una nave (dove domina la crudeltà) ma è sovrastato dalla pace del mare e dalla serenità dell’accettazione del dolore e del torto. Nelle interpretazioni del racconto, il protagonista (un giovane mozzo balbuziente che non riesce ad articolare il proprio pensiero) è visto o come la natura o come un angelo – nessun dei due può parlare. Dal racconto è stato tratto un film di grande successo nel 1962 (che spesso ritorna in televisione) diretto ed interpretato da Peter Ustinov (altri protagonisti Terence Stamp e Robert Ryan). Nel film il racconto di Melville è letto come la lotta tra il bene ed il male.



L’opera di Benjamin Britten, pur restando fedele alla trama, differisce sia del racconto che dal film in quanto, nel libretto di E. M. Forster e Eric Crozier, il protagonista (sin dal prologo) è il Captain Vere (parte scritta appositamente per Peter Pears, compagno di vita del compositore) il quale ricorda gli avvenimenti in cui, da presidente di un tribunale militare, decretò la morte del giovane mozzo Billy Budd, pur essendo convinto della sua innocenza, e ne soffrì tutta la vita. Nel film Vere (Peter Ustinov) muore in battaglia poco dopo l’impiccagione di Budd. Nell’epilogo dell’opera, Vere si chiede perché, pur potendo, non abbia salvato Budd e conclude che è stato il giovane mozzo a salvare lui.



Il racconto è un apologo sul conflitto tra bene primordiale e male primordiale, da un lato, e la giustizia umana (costretta, a volte e suo malgrado, a favorire il secondo) dall’altro. Siamo nel 1797, Billy è un giovane marinaio tanto bello quanto innocente; ha solo un difetto, la balbuzie (perché nessuno, neanche i migliori, sfuggono alle tracce del peccato originale). Ha la simpatia di tutti, soprattutto del comandante, Captain Vere. L’innocenza si incunea nella violenza di bordo e mette a repentaglio il ragazzo. Il sadico Serg. Claggart è attratto fisicamente da Billy, il quale neanche se ne accorge, Claggart lo accusa di fomentare un ammutinamento. Messo a confronto con le accuse, Billy è colto da una crisi di balbuzie e non sa difendersi; fende un pugno a Claggart, facendolo cozzare con uno stipite e, involontariamente, uccidendolo. Vere sa che Billy non ha colpa, ma, in guerra (e con vascelli francesi che stanno per attaccare), l’assassinio di un sottufficiale comporta l’impiccagione. Nel morire, Billy ringrazia Dio per la vita che gli ha dato e gli chiede di benedire Vere.

I due temi principali di quasi tutte le opere di Britten – la sopraffazione dell’innocente e l’“essere diverso” – sono centrali alla sua lettura data alla novella di Melville, al pari di quanto quello della giustizia ( ingiusta) – si pensi a Peter Grimes o a Lo Stupro di Lucrezia. Dato l’orientamento sessuale di Britten non mancano, nell’opera, momenti omoerotici. Vengono, però, trattatati con pudore. La differenza principale tra racconto e libretto è che, nell’opera, la vicenda è un lungo flashback dell’ormai anziano (e contrito) Vere, il quale, nel ricordare l’episodio fondante della sua avventura umana, medita sul suo significato e soprattutto sul suo ruolo come giudice diventato, per ragione di Stato, “ingiusto”.

L’opera è strutturata come i quattro movimenti di una sinfonia – il primo un andante a carattere narrativo, il secondo un notturno meditativo, il terzo uno scherzo pieno di azione ed il quarto un grande finale. Britten ne compose tre versioni, una in quattro atti nel 1951, una seconda quasi subito dopo in un’edizione cameristica con l’accompagnamento di due piano forte (ed una riduzione nel numero di personaggi secondari) per il piccolo teatro costruito accanto alla sua casa di Aldeburgh nel Suffolk. Nella terza (quella del 1961, ormai entrata di uso corrente, ed in scena a Roma), i quattro atti sono compattati in due e i movimenti si fondono in un sinfonismo dominato dai colori del mare ( alternarsi tra re bemolle maggiore e re minore), della bontà e bellezza (sì naturale), del male (fa) e dalla giustapposizione tra do e la.

Lo spettacolo visto a Roma alla prima dell’8 maggio ha meritatamente ottenuto l’Oscar internazionale della lirica.  E’ indubbiamente superiore a quello (con la regia di Davide Livermore) visto alcuni anni fa a Torino ed a Genova ed a quello (con la regia di Francesca Zambello) che ho visto a Ginevra nel 1995 e ha circuitato per vari teatri europei ed americani, In primo luogo, la regia di Deborah Warner, le scene di Michael Levine, i costumi di Chleo Obolonesky e le luci di Jean Kalman, ci portano in un ambiente atemporale (i costumi degli ufficiali sembrano quelli della seconda guerra mondiale) e sottolineano il carattere universale  non collegato alla guerra franco-britannica per il dominio nella Manica di fine settecento. La guerra si avverte, ma sembra essere lontana (anche se la disciplina e la legge di guerra dominano a bordo). Nella scena unica, con praticabili a più livelli per mostrare i vari ponti della nave gli alloggi per gli ufficiali, la stiva con la camerata per i marinai, l’azione si dipana con un taglio quasi cinematografico con una grande recitazione da parte di tutti, specialmente del coro nelle scene di massa. Siamo in mare nordico, nebbioso in cui in effetti le nebbie avvalgono il vascello ed accentuano il clima del dramma. A volte, nelle nebbie, i personaggi appaiono come silhuoettes o dagherottipi.

Semplicemente eccellente la direzione musicale di James Conlon – ricordo quando studiava alla Julliard School ed i suoi esordi alla Washington Opera con il mozartiano Così Fan Tutte. Estrae dal sinfonismo di Britten i richiami alla tradizione musicale inglese sin dal seicento – Purcell, la polifonia, l’insistenza sui fiati. Conlon ha valorizzato l’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma che nulla ha da invidiare a quella del Teatro alla Scala, anzi nei fiati e negli ottoni senza dubbio la supera.

Ottimo il cast, che richiede ben 19 solisti maschili un grande coro ed un piccolo ensemble di voci bianche.  Impossibile ricordarli tutti. Di altissimo livello il coro (vero e proprio protagonista dell’opera). Diretto da Roberto Gabbiani mostra acrobazie non solo vocali ma anche ginnici (dato che siamo in mare in periodo di guerra). Philip Addis è Billy; è un giovane baritono di agilità che ha già interpretato più volte il ruolo (tra l’altro, a Genova); di bello aspetto, grandi capacità attoriali è perfetto nella parte. John Relya (Claggert) è un baritono-basso che illustra a pieno la perfidia del personaggio. Toby Spence è un pari tenore, che ricorda Peter Pears per cui fu scritta la parte e scava nei tormenti interiori di Vere.

Grande successo.