Memphis, Tennessee. E’ la sera del 29 maggio 1997, sta facendo scuro. Un furgone che proviene da fuori città passa lungo il Wolf River, un affluente del Mississippi, il più grande fiume d’America, che l’attraversa da nord a sud e passa per la città di Memphis. Il furgone si ferma poco lontano da dove le acque del primo si gettano nel secondo. Dal furgone esce un giovane sui trent’anni, tenendosi addosso i vestiti compresi i pesanti stivali si getta in acqua tranquillamente, si fa una bella nuotata. L’amico rimasto a riva lo sente canticchiare il ritornello di Whole Lotta Love, il classico del Led Zeppelin. Ma nessuno dei due si accorge che sta arrivando uno dei tanti battelli che transitano il MIssissippi. Si crea un inevitabile gorgo e per colpa anche degli abiti che indossa il giovane sparisce nelle acque. Il suo corpo viene ritrovato solo giorni dopo, il 4 giugno, tra i rami di un albero sotto il ponte di Beale Street, notato da un passante. E’ la strada più famosa di Memphis, quella dei locali della musica, quella dove si esibivano le più grandi leggende del blues e del rock, dove anche Elvis Presley, cittadino di Memphis, era solito bighellonare. Non sembra un caso, perché quel ragazzo trovato cadavere è Jeff Buckley, in quel momento storico forse l’artista emergente più famoso del mondo: con la sua voce angelica ha conquistato tutti con un solo disco, Grace, l’unico che avrebbe inciso da vivo. Jeff Buckley viene riconosciuto grazie a un piercing all’ombelico e la maglietta che indossa dal suo tour manager. Nessuna traccia di alcol o droghe risulta dall’autopsia.
LA CANZONE PIÙ FAMOSA (MA NON È SUA)
La madre rilascia un comunicato ufficiale: “La morte di Jeff Buckley non è stata “misteriosa”, legata a droghe, alcool o suicidio. Abbiamo un rapporto della polizia, un referto del medico legale e un testimone oculare, che provano che si è trattato di un annegamento accidentale e che il sig. Buckley era in un ottimo stato mentale prima dell’incidente”. La madre, che aveva già perso il marito anche se al momento della morte i due erano sperati, anche lui un cantante, uno dei più grandi della storia del rock, ancor più grande del figlio anche se non sapremo mai come avrebbe continuato la carriera. Si chiamava Tim Buckley e morì più o meno alla stessa età del figlio, trent’anni, di overdose. Una eredità maledetta che lasciò il mondo della musica sotto shock. Jeff Buckley stava incidendo il suo secondo album, dopo l’esordio fulminante tre anni prima con Grace. Dopo la sua morte sarebbe uscito un diluvio di dischi postumi: pezzi abbozzati in studio, live, molti dei quali solo sfruttamento commerciale. Di questi vale la pena ricordare quello uscito un anno dopo la morte, il 26 maggio 1998, Sketeches for my Sweetheart the Drunk, contenente le registrazioni ormai quasi terminate che stava facendo quando morì. Tra i brani più famosi da lui incisi una cover di Hallelujah di Leonard Cohen, che ebbe tanto successo che in molti pensavano e pensano ancora oggi l’abbia scritta lui. Dei brani autografi invece vale la pena ricordare la bellissima Lover you should come over.