“Perché scrivo” annuncia Patti Smith nel sottotitolo del suo ultimo libro, “Devotion” (Bompiani, 112 pg., euro 13), una dichiarazione di intenti non da poco. Noi lettori possiamo solo porci una domanda, la stessa, sempre: “perché leggiamo?”. Leggiamo, o ascoltiamo musica, perché cerchiamo qualcuno che ci guidi, ci dia delle coordinate. Ci diverta anche, sicuramente ci distacchi dalla realtà che siamo soliti affrontare, ma solo questo sarebbe banale. Soprattutto cerchiamo una voce che dia espressione alla nostra incapacità di farlo, ci corrisponda, ci muova, ci inquieti anche. Vogliamo essere guidati a cogliere quell’ineffabile senso del mistero che normalmente soffochiamo negli obblighi quotidiani. Poi alla fine ci accorgeremo che nessun libro è in grado di darci questo, e ne cominceremo un altro. Sicuri che anche lo scrittore non è approdato a quel che cercava. E’ una lotta continua, ma val la pena di condurla, chi non è mai soddisfatto non una persona sbagliata, anzi il contrario.
Devotion comincia come era finito M Train: Patti Smith alle prese con le sue incombenze quotidiane, con una serie di capitolati intitolati “Come funziona la mente”, sempre più sola in quel monastero di clausura che è la sua vita ormai da anni, con le pause nei concerti e nei reading che sempre più raramente si concede. La colazione, la valigia da preparare in fretta perché si è ricordata che deve volare a Parigi a fare una conferenza: “Un libretto per appunti, una monografia su Simone Weil, mutandine, calzini, uno spazzolino per i denti, una maglietta piegata, la macchina fotografica, penna e occhiali scuri. Tutto ciò di cui ho bisogno” In mano, in aereo, al bar, in albergo, per la strada, un taccuino e una penna che però appaiono bloccati, incapaci di esprimere alcunché. Cerca ispirazione, ma è più giusto cerca i luoghi cari alla sua anima: dalla casa di Camus a Lourmarin al giardino parigino dell’editore Gallimard, dove dialogano i fantasmi di Mishima, Nabokov e Genet, dalla tomba di Simone Weil nel cimitero di Ashford alle strade senza nome di Parigi dei romanzi di Patrick Modiano.
Il capitolo si chiude. Quello successivo apre a un altro mondo, la storia di Eugene, ragazzina 16enne fuggita a 5 anni con la zia dall’Estonia occupata dall’esercito sovietico nell’immediato dopoguerra, i ricordi della madre morta in un gulag in Siberia e del padre che nessuno sa la fine che abbia fatto che si fanno sempre più labili, ma comunque persistenti.
In America vive in un cottage con la zia che la lascia quando trova un fidanzato, ma a lei non importa la solitudine. Ha un solo, unico, immenso e devastante desiderio: pattinare sul ghiaccio di un laghetto poco distante. E’ la sua gioia, la sua consolazione, il suo desiderio che le spacca il cuore, che la mette in comunione fra il suo Io e il cielo quando salta alzando il braccio per toccarlo. Fino a quando, un giorno, si accorge di essere osservata da un uomo, un quarantenne, che la guarda in modo morboso. Per la prima volta qualcuno la guarda mentre pattina, esegue le sue giravolte o i suoi voli incredibili, e lei è felice che lui la stia guardando. La vita di Eugene cambierà improvvisamente, fino a toccare livelli impensabili, per lei e per il lettore.
La metafora contenuta nel racconto è evidente: la pattinatrice è l’artista, felice di appagare solo se stessa, ma a che serve se nessuno ti guarda/ti legge? L’uomo che la osserva è il mecenate che le promette di portare le sue capacità sportive/letterarie al livello del consenso pubblico che meritano. Ma c’è un prezzo da pagare per tutto questo. Eugene/Patti Smith lo rifiuta. Il suo mentore/amante Alexksandr è un mercante d’arte che vende quello che trova ai musei, ma tiene per sé le cose più belle, ma queste gli procurano solo dolore: “qualcun altro li avrà quando sarò morto”. Che cosa deve il creatore, l’artista all’acquirente e viceversa?
L’ultima parte del libro è dedicata a una notte in cui il suo editore francese le permette di passarla nello studio di Albert Camus, toccando le sue cose, leggendo il manoscritto che lo scrittore stava scrivendo quando rimase ucciso in un incidente. Quelle pagine, rimaste incomplete, sembrano darle la risposta che cercava: “Questa è la forza decisiva di un’opera creata da soli: una chiamata all’azione. E io, di volta in volta, sono sopraffatta dall’ubriachezza per credere di poter rispondere a quella chiamata”. Insomma, la risposta non c’è, se non in un bisogno primario di scavare dentro di sé. Patti Smith torna a casa, a New York, alla sua solitudine, alla sua devozione per tutto ciò che esprime le profondità del suo cuore, la contemplazione, il silenzio, con il quadernetto pieno di apppunti. Ancora una volta, Patti Smith ci ha permesso di vivere con lei la sua quotidianità. E per chiunque la ami, e non siamo pochi, è stato anche questa volta un privilegio.
“Devozione”, il titolo del libro, è la parola che la Smith trova incisa su una tomba abbandonata accanto a quella di Paul Valéry e che scandisce il ritmo della sua vita: “Sento un desiderio familiare di ricevere il corpo di Cristo ma non mi unisco a loro (…) E Cristo? Forse non sognava, sapeva già tutto quello che c’era da sognare, ogni combinazione, fino alla notte dei tempi”.” Il libro è scritto benissimo, specialmente la storia di Eugene, sorprendendoci in modo inaspettato benché conoscessimo la sua bravura, ma qui è qualcosa di muovo quello che ci offre. E’ una scrittrice di talento puro. Lungo poco più di 100 pagine, è uno di quei libri che si possono leggere in una sola volta, ed essere poi costretti a rileggerli più e più volte. E la domanda, posta all’inizio, diventa sempre più drammatica: “Perché lo spirito creativo si rivolta contro se stesso? Perché il creatore distorce ogni dramma? La penna è sollevata, guidata dalla musa in pezzi. Senza discordia, scrive, l’armonia passa inosservata, senza discordia, continua. Abele diventa un semplice pastore dimenticato”. Alla fine ecco la risposta: “Qual è il compito? Comporre un’opera che comunichi su diversi livelli come in una parabola, priva dell’inta del’astuzia. Qual è il sogno? Scrivere qualcosa di bello, che sia migliore di me e che giustifichi le mie tribolazioni e indiscrezioni. Dare prova, attraverso un miscuglio di parole, dell’esistenza di Dio. Perché scrivo? Il mio dito come uno stilo traccia domenade nell’aria vuota (…) Perché scriviamo? Un coro erompe. Perché non possiamo soltanto vivere”.
No, vivere soltanto non sarebbe abbastanza per il nostro cuore.