Finalmente un festival “a misura d’uomo”, quello di Cittadella a Parma, tenutosi nelle serate del 21 (Ennio Morricone), 22 (Lauryn Hill) e 23 (artisti e dj vari) giugno scorsi. Non gli allucinanti parcheggi d’asfalto arroventati dal sole senza un cespuglio per far ombra; non i posti auto lontani chilometri dal luogo del concerto al costo – criminale – di 15 e anche 20 euro; non il furto dell’uso del cosiddetto token, una moneta “da festival” che sostituisce l’euro causando disagi e anche perdita economica. Parma infatti è una cittadina, il che significa arrivare a parcheggiare tranquillamente a pochi metri dall’evento; è comoda da raggiungere da qualunque grande centro del nord Italia; la capienza prescelta è appunto a misura d’uomo, tra i 5 e i 10mila spettatori; la zona è un bellissimo prato in mezzo a un bosco, fresco e ombroso; il servizio accoglienza e assistenza è di prima classe, dove gli spettatori non sono trattati come normalmente succede come bestiame ma come esseri umani; la biglietteria apre alle 18 e 30, cosa che evita il formarsi delle solite lunghissime file di accalcati. Forse troppo pochi i punti ristoro che hanno causato lunghe code, ma d’altro canto si vendevano specialità della tradizione locale, non la solita salamella avanzata dalla sagra di Pasqua.
Una ottima prima edizione con, dicono gli organizzatori, oltre 20mila presenze in tre serate, speriamo sia l’inizio di una lunga stagione.
Noi ci siamo recati a vedere Lauryn Hill, l’ex cantante di uno dei migliori gruppi hip hop di sempre, i Fugees, in Italia per una sola data in occasione del ventennale dell’uscita del suo primo disco solista, il bellissimo ancora oggi The Miseducation of Lauryn Hill. Chi scrive l’aveva vista proprio allora, alla Brixton Academy di Londra, il quartiere dei migranti – “re-fugees” – giamaicani, in un concerto che fu una festa e una affermazione di bellezza, gioia, appartenenza di popolo, musica coraggiosa e innovativa, capace di riunire le grandi tradizioni black come il soul, il R&B, il funk nel segno dell’hip hop più onesto e stradaiolo. Niente machismo (o femmine pseudo-erotiche) ostentato, volgarità, elettronica da quattro soldi come è diventato l’hip hop negli ultimi vent’anni.
E vent’anni dopo è ancora così, un brutto raffreddore a parte che costringe la Hill a dotarsi di fazzoletto e a combattere una dura battaglia per non cancellare lo show. Nonostante il disagio, se la caverà benissimo, a parte la non riuscita Killing Me Softly with His Songs per ovvie ragioni, brano troppo difficile da eseguire con un brutto raffreddore.
Prima di lei un maestoso dj set che da Stevie Wonder a Notorious BIG in avanti ha infuso buone vibrazioni a tutti: “This is the real hip hop” gridava il dj e aveva ragione. Ha dovuto pescare negli anni 70, 80 e 90 perché oggi l’hip hop è morto e defunto, in mano a tamarri che non sanno neanche cosa siano un ghetto e la sofferenza.
Lauryn Hill è salita sul palco meravigliosa più che mai, con un elegante vestito bianco con pizzi e gonna lunga e un cappello a larga visiera in testa: sembrava una donna di una piantagione cubana dell’ottocento in un giorno di festa. Due secondi dopo il suo arrivo, i posti a sedere erano abbandonati e migliaia di persone saltavano e ballavano: “Make some noise, Parma”.
Si è concessa senza risparmio rilasciando bombe ritmiche vocali impressionanti, autentica poesia di strada con continui richiami al concetto di “fuggitivo, migrante” accompagnata da una band di musicisti in carne e ossa senza trucchi elettronici, soprattutto un batterista semplicemente fenomenale. Ha equamente diviso il repertorio tra brani dei Fugees e di “Miseducation”. Della sua ex band ha eseguito l’incalzante How Many Mics, la divertente Fu-Gee-La e soprattutto Ready or Not, una chiamata alle armi del popolo di colore, in questo caso ha chiamato il popolo di Parma. Meravigliosa la ripresa di Turn Your Lights Down Low di Bob Marley, man soprattutto una esecuzione soul da pelle d’oca di Can’t Take My Eyes off You di Frankie Valli, l’ex frontman dei Four Seasons, gruppo storico dei 60.
Dal suo disco ha tratto quasi tutto, dall’iniziale Everything is Everything, Ex-Factor, una commovente To Zion, anche se adesso suo figlio ha vent’anni esattamente come la canzone che gli dedicò, finendo con una trascinante Doo Wop. Benché ci fossero un paio di musicisti bianchi, il bassista e il chitarrista, quando l’hip hop suona a questi livelli, è una dichiarazione di orgoglio e appartenenza razziali che non ha uguali, un grido di libertà e di gioia di vivere che non ha paragoni nella scena nichilista e sfigata del rock contemporaneo. La potenza sonica espressa è pari a quella del rock, e l’ampia cornice di musicisti tra cui un trombettista, tastiere, tre coriste meravigliose, due MC di spalla, hanno passato in rassegna il meglio della black music citata in continuazione nelle lunghe e poetiche escalation vocali della Hill. Alla fine si è concessa senza risparmiarsi agli spettatori delle prime file firmando autografi a tutti.
La domanda che rimane è: ma i rapper italiani, di cui evitiamo accuratamente il nome, hanno mai visto artisti come Lauryn Hill? Pensiamo di no, altrimenti non dovrebbero avere il coraggio di salire su di un palco.