Il 6 giugno al Teatro Comunale di Bologna è stata presentata una nuova produzione di Don Carlo di Giuseppe Verdi. Una nuova messa in scena di questo lavoro è sempre temeraria perché l’opera richiede sei grandi voci, un grande coro, diversi cambiamenti di scena ed in alcune edizioni anche un grande corpo di ballo. Nell’edizione bolognese, la regia è affidata a Henning Brockhaus, le scene a Nicola Rubertelli, i costumi a Giancarlo Colis e la direzione musicale a Michele Mariotti. Le voci principali sono Roberto Aronica, Luca Salsi, Dmitry Beloselskiy, Luis-Ottavio Faria, Luca Tittoto, Maria José Siri, e Veronica Simeoni.



Don Carlo l’opera forse più squisitamente politica di Giuseppe Verdi, il quale mette in scena la decadenza degli Asburgo di Spagna nel passaggio da Carlo V a Filippo II in contrasto con il Grande Inquisitore e con il proprio figlio – l’ “infante” “Don Carlo” il cui destino resta misterioso nell’affascinante ambiguo finale dell’opera (si rifugia a San Giusto, ma non è chiaro se finirà nelle mani del Grande Inquisitore o, riuscirà, a porsi alla testa della rivolta nelle Fiandre).



Don Carlo è la grande “incompiuta” di Giuseppe Verdi. E’ la sola che non ha avuto una versione definitiva se non si considera tale quella “di Modena” del 1886 che riprendeva in versione ritmica italiana, ma scorciandola, l’edizione originale parigina del 1867; l’ “ur-Don Carlo” parigino (circa 7 ore di spettacolo). Per ragioni di durata, in Italia è invalso l’uso di rappresentare la versione “di Milano” o “della Scala” del 1884 – in quattro, invece, che in cinque atti – da cui si perde, musicalmente e drammaticamente, l’“atto di Fontainebleau”, premessa essenziale della vicenda e, soprattutto, momento onirico di ricerca dell’utopia. Viene a mancare anche il nesso con la geopolitica: nell’atto, il giovane Don Carlo s’innamora, nella foresta imbiancata dalla neve, della giovanissima Elisabetta di Valois, ma non sa che essa è destinata in sposa a suo padre, Filippo II, proprio per rispondere ad un disegno di integrazione economica, strategia e culturale (si badi ai richiami, nel secondo quadro del secondo atto, alle “canzoni saracene” ed all’eleganza e modernità nella lontana Parigi).



A Bologna è in scena la versione detta “scaligera”. L’azione è situata in un contesto atemporale: un impianto scenico unico che con pochi movimenti e cambi di attrezzeria mostra i vari luoghi dell’azione (il Convento di San Giusto, il giardino del Palazzo Reale, il giardino privato della Regina, la cattedrale per il rogo degli eretici e l’incoronazione del Re, gli appartamenti del Re, la prigione). I costumi vanno dal moderno elegante per due protagonisti maschili, alle uniformi inizio Novecento per il Re e la sua Corte, allo stile liberty per le due protagoniste e per le donne del Palazzo, In questo modo si perde la “storicizzazione” della vicenda ma le si attribuisce un carattere universale. Soprattutto il Grande Inquisitore è sempre in scena (non solo nel terzo atto e per un attimo nel finale) dando una impostazione nettamente politica al lavoro; l’Inquisitore è l’oppressione delle gerarchie ecclesiastiche, più potenti del Re (e dell’Imperatore Carlo V sul cui Regno non tramontava mai il Sole). E’ una visione interessante, non condivisa da tutto il pubblico (al termine dello spettacolo ci sono state proteste dal loggione alla regia, alle scene ed ai costumi) ma che risolve alcuni problemi drammaturgici del Don Carlo versione 1884. Ad esempio, nel primo atto l’aria di entrata del tenore è accompagnata da proiezioni che ricordano il castello di Fontainebleau e, quindi, spiegano il legame tra l’infante di Spagna e la Regina ed il secondo atto è introdotto da una breve scena con il cambio di maschera tra la Regina e la Principessa Eboli, essenziale per comprendere gli sviluppi seguenti. Regia, scene e costumi, quindi, mostrano uno sforzo intelligente per adattare il “colossal” verdiano alle risorse del Teatro Comunale di Bologna (da dove mancava da quasi vent’anni).

Ottima la direzione musicale di Mariotti che pone enfasi sulle sfumature – magnifico, ad esempio, il gruppo dei fiati – pur mantenendo una concertazioni serrata. Tra le voci, nel gruppo maschile, primeggia il Marchese di Posa interpretato da Luca Salsi in condizioni splendide. Don Carlo è Roberto Aronica che, con il passare degli anni, ha mantenuto il suo chiaro squillo ma tende a sforzare il volume. Dmitry Beloselskiy e Luiz-Ottavio Faria sono rispettivamente un Re ed un Grande Inquisitore di grande livello. Tra le protagonisti femminili, primeggia la sensuale Veronica Simeoni. Maria José Siri ha cantato in modo esemplare Tu che la vanità, impervia aria con cui inizia il quarto atto, ma nel resto dell’opera, ho avuto l’impressione che con una lunga frequentazione di verismo ed opera del Novecento la sua vocalità si sia inspessita.

Applausi a scena aperta ed ovazioni al termine per la parte musicale misti – si è detto a dissensi – a regia, scene e costumi.