Cosa rappresenta una linea di confine? Partecipare ad un concerto dei Calexico, può essere un’occasione per tentare di trovare le risposte. Certamente non c’è separazione tra pubblico e musicisti, perché una transenna e pochi metri dal palco non bastano a dividere cuori che, fin dalla prima canzone, si ritroveranno con naturalezza a battere all’unisono. Distanze che, prima del concerto, si erano peraltro rivelate già fittizie, quando ci si era accorti di John Convertino, batterista e fondatore – con Joey Burns – della band, intento a passeggiare amabilmente intorno al mixer, non disdegnando di posare insieme ai fans per più di una foto. Tranquillo e sorridente, ci confessa il suo dispiacere per la data annullata il giorno prima in un’altra città a causa del maltempo; “ma stasera andrà molto meglio”, aggiunge prima di tornare insieme agli altri del gruppo.



Linea di confine è sicuramente quella lunga retta che separa in maniera quasi artificiale il Messico dal sudovest degli Stati Uniti. Spazi immensi, da Brownsville sino a Tijuana, desertici nel paesaggio come nell’animo di uomini e famiglie che li hanno attraversati infinite volte, partiti da una realtà di miseria e solitudine per un viaggio con direzione american dream. Tucson, Arizona, luogo d’origine e sede della band, non è molto distante da quella linea, che adesso, per miglia e miglia, appare segnata dai muri che l’animo umano innalza non solo col filo spinato, ma anche con la diffidenza e l’egoismo, figli del suo peccato originale. E Calexico non è solo nome di un gruppo, ma prima di tutto di una cittadina, ancor più vicina al border ed affacciata alla gemella Mexicali; due città, poste l’una di fronte all’altra come davanti ad uno specchio, California e Messico mescolate tra loro già nel nome, a dirci che le contaminazioni forse non sono sempre rischiose, ma possono anche rivelare piacevoli affinità elettive.



Il suono dei Calexico, che Burns e Convertino membri in origine dei Giant Sand, fondano nel 1990, ha i piedi ben piantati in quell’alternative rock che ha fatto nascere alberi dalle solide radici in molti luoghi della periferia americana. Fin dagli inizi esso appare forgiato dal deserto che lo circonda, ma ben presto se ne discosta, avventurandosi alla ricerca di luoghi ed esperienze musicali differenti. Certo, mantiene quel tratto malinconico e solitario, finanche violento, che contraddistingue un clima arido e ostile, schiaffeggiato di continuo dal caldo. Ma prova a spingersi anche verso mete dalla skyline meno ampia di quella continuità di cielo e terra senza fine, ma non per questo non abitate dalle medesime ferite dell’esistenza, anche se cresciute in compagnia della vivacità e dell’apparente allegria dei popoli del sud. Così quella linea di frontiera viene attraversata sempre più spesso da Burns e soci – prima di tutto in musica, poi anche fisicamente – sino a che il confine stesso appare come qualcosa d’inafferrabile ed evanescente, indistinguibile come le radici del suono che hanno generato quel territorio nuovo, la cumbia mescolata al rock, il mandolino e la fisarmonica accanto alla chitarra psichedelica e distorta, la pedal steel capace di duettare con trombe e maracas. E’ una nuova musica, ma, allo stesso tempo, una cultura differente, capace di generare qualcosa di diverso: “la nostra musica – racconta Joey in una recente intervista – si è arricchita ed ispirata non solo da quella del Sudovest e del Messico, ma anche da quella di Cuba, del Sud America, di New York, dell’Europa del Mediterraneo.  Molte persone mettono muri tra le varie culture ed io credo che se i nostri politici avessero un’apertura mentale come quella dei musicisti di band come la nostra, le cose potrebbero migliorare”. 



 

 Il concerto dei Calexico di stasera, in quella periferia di Milano ed all’interno di spazi industriali dismessi che richiamano atmosfere di Blade Runner, diventa un piccolo assaggio di questa dimensione culturale, ed al contempo un tuffo verso sonorità affascinanti, esperienza che, alla fine, si rivelerà tanto unica quanto straordinariamente coinvolgente. “Quando sei stato ad un concerto dei Calexico non puoi fare a meno di tornare tutte le volte che vengono di nuovo”, è stato scritto; ed anche per il sottoscritto è così: già visti all’Alcatraz di Milano nella primavera di quest’anno, il richiamo ad essere presenti al nuovo appello è troppo urgente perché possa rimanere disatteso.  L’inizio del concerto è un tuffo nelle ultime composizioni: quattro brani – Dead in the Water, End of the World With You, Voices in the Field, Under the Wheels – tratti da The Thread That Keeps Us, ed è una dichiarazione d’intenti, perché il titolo dell’album spiega già tutto: “di questi tempi sentiamo parlare così spesso di ciò che ci divide – spiega Burns in un’altra intervista – perciò ho pensato: cos’è che invece ci mette in relazione e ci unisce?” E questa sera, nell’introdurre Voices In The Field, canzone che s’ispira alla gente sradicata dalla propria terra, che ha lasciato case distrutte in Siria, piuttosto che in Africa o in Centro America, Joey dice semplicemente che quella è la loro canzone che parla di migranti.  

 Le atmosfere dei primi brani sono più propriamente rock, ma è solo questione di tempo, perché cumbia e sonorità latine sono dietro l’angolo. Across The Wire e Cumbia de Donde, ad esempio – la seconda arricchita da un’incursione su Bella Ciao, grazie alla comparsa sul palco del cantautore abruzzese Domenico Imparato – portano sul palco la fiesta messicana, mentre le incursioni dentro il deserto dell’Arizona colorano di sfumature i ritmi ancora latini di Sonic Wind e Victor Jara’s Hands, canzone, quest’ultima, che s’ispira alla figura del cantautore e poeta cileno ucciso da Pinochet e che viene introdotta da poche semplici parole di pace di Burns: “siamo un solo popolo, per un solo pianeta”. La band regge il passo di uno straordinario melting pot sonoro, grazie ad una padronanza tecnica che le consentirà di resistere per due ore di show senza interruzione. Oltre alla bella voce ed alla chitarra di Burns ed alla solida sezione ritmica basata sul drumming preciso di Convertino e sui virtuosismi al basso di Scott Colberg, si compone dell’eccellente chitarrista Depedro, alias Jairo Zavala Ruiz, vocalist aggiunto nei brani in lingua spagnola, e dei multistrumentisti Martin Wenk, Jacob Valenzuela e Sergio Mendoza, che passano con disinvoltura dalla tromba a chitarre, mandolino, fisarmonica e tastiere. Ogni brano è un continuo via vai sonoro e quella frontiera tra il rock americano e i suoni di altre latitudini viene oltrepassata di continuo. La band compie continue scorribande sonore, e il pubblico si coinvolge sempre più, batte le mani, segna il tempo, canta in coro i versi delle canzoni che conosce, raccogliendo persino l’invito a duellare con la chitarra di Depedro, che gioca con il pubblico facendogli sottolineare con la voce ogni nota di un suo assolo.

 

 La setlist del concerto cambia ogni sera, nel corso del tour europeo della band, con piccole variazioni che la rendono sempre originale. Bullets & Rocks è la sorpresa per Milano, che Joey continua a ringraziare per tutta la sera, un brano che ci riporta ancora in quel desert rock che non riusciamo a smettere di amare. Poi arrivano Flores y Tamales e Crystal Frontier, che chiudono lo show prima dei bis finali. “Crystal Frontier è basato su ritmi propri della cumbia, mescolati ai nostri suoni”, racconta ancora Burns, ma è l’ennesima canzone simbolo di quel sudovest americano crocevia di illusioni, speranze e delusioni. Poi sono solo pochi istanti, quelli che ci conducono in un lampo ai bis finali. Naõ Queiras vede di nuovo un elettrizzato Domenico Imparato, condividere musica, ritmi e parole con i suoi nuovi amici americani. Another Space è ancora un assaggio del nuovo disco e Güero Canelo – mixato con Desaparecido e El cuarto de Tula – è l’apoteosi finale, la canzone da cantare tutti in coro, il brano che chiude invariabilmente gli ultimi concerti dei Calexico. C’è solo il tempo per ringraziare ancora una volta Milano, per i musicisti della band e Tucson, per noi dall’altra parte, in un luogo che ormai ha abbattuto ogni confine. Joey e soci se ne vanno soddisfatti, io mi avvicino al banchetto del merchandising ufficiale. I dischi li ho già tutti, ma il mio sguardo si posa su una t-shirt su cui è disegnata un’auto con la roulotte, in viaggio verso un orizzonte tutto da scoprire. Una scritta in giallo oro, “follow the sun to Calexico”, campeggia sopra la scena ed io non posso fare a meno di comprare quella maglietta per portarmela a casa. C’è una strada che è molto di più di una colonna sonora per inseguire i sogni di questa nostra povera umanità, segnata da desideri disattesi di pace; ma questa sera almeno un po’ di musica ce l’ha fatta intravedere.