Una cantautrice come Paola Rossato ci porta nell’estrema frazione dove i fermenti artistici del Friuli ancora non si erano avventurati.  Ispirarsi scopertamente e senza paura di essere etichettati al proprio mentore artistico, nel suo caso una delle grandi madri della seconda ondata del cantautorato italiano, Paola Turci.  



Da questo vivo senso del tributo però si schiudono due distinte vie di fuga che vanno a connotare la personalità della goriziana.  Da un lato la contiguità di riferimenti con l’amica e conterranea Rebi Rivale, dall’altro un proprio incontrollabile spingersi oltre con un’energia interpretativa di rottura uguale a nessun’altra. Tutto questo si trova nel bell’esordio di “Facile”, titolo che è una neanche tanto velata provocazione, in quanto qui la facilità – nel senso più prosaico e rassicurante del termine – appare bandita.  Non manca però quella semplicità feconda tipica di chi possiede una abilità innata nella scrittura di linee  melodiche degne di essere ascoltate e meditate.  



Tutto questo esce da un arco di dieci anni di esperienze sul campo (tra le quali i vari Lunezia e Bianca D’Aponte) che hanno portato a quella che potrebbe essere vista come una sintesi ragionata di questo percorso. Con la complicità di un affiatato e mai invadente gruppo base che vede Sergio Giangaspero alle chitarre, Simone Serafini a basso e contrabbasso e Ermes Ghirardini alla batteria.

Nell’inizio di Io e la collina, nelle sue note e movenze vocali concepite all’inizio del decennio, sembra di ritrovare e sorprendere le evoluzioni della Turci del pop-folk cantautorale di fine anni ’80.  C’è l’ironia felpata che dispensa graffi e carezze in egual misura, c’è il timbro vocale che un po’seduce e un po’accusa.  E soprattutto una linea vocale vincente che accompagna questa canzone, forse scelta per rappresentare una dichiarazione d’intenti posta in apertura, con quel pizzico di orgoglio e indipendenza del chiamarsi fuori dalla fiera dell’omologazione.  



E se un’ottima  Il fiore col codice a barre che in cinque minuti di nervoso e sprezzante forcing dai toni fossatiani, demolisce la meccanizzazione della bellezza ridotta a numero e utilitarismo, Non dormo ne rappresenta il vertice di rabbiosa determinazione, con storie di degrado quotidiano e dignità calpestata scandite a ritmo di reggae d’autore alternate a un inserto rap (dell’ospite Doro Gjat) sorprendendo, nella variante interpretativa feroce della protagonista, il suo lato più teatrale e originale.  E’ un’impronta forte e scomoda che viene ripresa più avanti nel disco nell’altro ritratto neorealista di E’ ancora casa e negli echi cameristici di Confine.  E ancora in Ballata piccola, si gusta l’elogio della profonda e necessaria normalità della vita di tutti i giorni che scandisce la verità delle vite ordinarie.

Quel che sembrerebbe essere un excursus sulla contemporaneità legato da un filo comune, non si rivela tale se non per l’intima connessione di alcune tematiche, piuttosto c’è un’attenzione agli aspetti che vanno a comporre una personalità senza dipendenza da pensieri unici o prevalenti.

Così se A volo lento e Che oggi no riaccarezzano il ritratto turciano popolare dei luoghi di vita quotidiana rivisti sotto la lente del distacco, la title track è il trionfo della variante elegiaca della cantautrice romana, che rivive nei sussurri malinconici delle strofe, ma che cattura una personale espressività nei toni medio alti dei ritornelli. 

E’ un’ascesa che trova il suo ideale compimento nel toccante quadretto di L’uomo delle parole dove si alternano deliziosi intrecci chitarristici a un’aria sospesa tra conflitto e implorazione.  Il disco si chiude con l’autentico divertissement di Emmi (Gr), autentica canzone a due facce dove una apoteosi amorosa simulata viene spezzata a più riprese da un ghigno beffardo da circo, tra doppi sensi, risate e un tocco di veleno.