Primavera 1989: Gli Alice In Chains sono una band emergente di Seattle. Non hanno un contratto, tuttavia i brani delle loro demo sono i più richiesti nelle radio locali, come la KISW.
Estate 1991: Il clip di Man in the Box, visto in una compilation su VHS speditami dagli USA, mi conquista. Recupero Facelift ed è l’inizio di una passione. Grunge in Sicilia è ancora una parola esotica.
Estate 1993: Vedo i Guns N’ Roses a Modena ma quell’anno, a febbraio, avrei voluto essere a Milano, per l’unico show italiano degli Alice col frontman Layne Staley. I più grandi, però, hanno deciso che tocca ad Axl e soci. Da minorenne, non posso oppormi.
Primavera 2002: Mancavo da casa da un anno e mezzo. Sono in cucina con mia madre, finalmente. Sfoglio il quotidiano su cui, tempo dopo, avrei scritto per un decennio e leggo della tragedia: Layne non ce l’ha fatta. Ha combattuto.
Primavera 2017: Entro nella mia camera a Seattle, nello U-District tanto caro a Staley. Accendo Radio KISW: passano ancora Man in the Box.
Martedì 10 luglio gli Alice In Chains sono tornati in Italia, per un intenso concerto al Carroponte di Sesto San Giovanni (MI), sull’onda del tour europeo che anticipa l’uscita del nuovo Rainier Fog. Sarà il terzo album con William DuVall alla voce, dopo il magniloquente Black Gives Way to Blue – fra i migliori comeback del rock – e The Devil Puts Dinosaurs Here, definito dal leader Jerry Cantrell: “Il lavoro più poliedrico degli Alice In Chains, dopo l’omonimo”. Era il 1995 e il testamento musicale di Layne Staley, iconico frontman ucciso da una lunga tossicodipendenza nel 2002, sarebbe stato a lungo rimpianto. Come già dimostrato il 28 giugno scorso a Padova, però, William è riuscito a entrare nei cuori spezzati dei fan, grazie all’umiltà artistica verso un’eredità musicale più grande di lui e a un naturale carisma. Sul talento, la tenuta on stage e le qualità vocali, non ci sono dubbi. Staley resta inarrivabile e, senza la sua voce e la sua vulnerabile umanità, queste canzoni che ancora riecheggiano dal palco non avrebbero superato la prova del tempo. Il chitarrista/cantante Cantrell conserva gelosamente il segreto della loro alchimia, che va oltre il lascito leggendario del gruppo.
Anche nella data alle porte di Milano – aperta dal revival rock dei Rival Sons – i Quattro, con gli imprescindibili Sean Kinney alla batteria e Mike Inez al basso, sono apparsi in forma. Il pubblico non era quantitativamente ciò che gli Alice meriterebbero ma qualitativamente sì, visto l’affetto profondo che lo lega al tribolato percorso del gruppo, che ricambia concedendosi a spettacolo concluso. Un concerto più intimo è stato una manna per i fedelissimi, fossero fan della prima ora o ventenni allora nel pancione delle mamme. Anche questo è un sintomo importante del legame transgenerazionale fra band e platea. Il cambio di location, prevista all’Ippodromo Snai di Milano, non ha intaccato la performance ma la resa sonora è stata appena sufficiente. Ciononostante, l’esibizione dei Chains, il coinvolgimento e una scaletta da brividi, hanno riportato tutto nella giusta dimensione: un salto affettivo negli anni ‘90 ma con i piedi ben piantanti nel presente, perché questa formazione è qui e ora, per restarci. L’ha dimostrato con l’attacco squassante di un’inattesa e acclamata Rain When I Die, seguita da Them Bones e Dam That River: una tripletta da Dirt (1992) che è suonata come il pugno in faccia del pugile sulla copertina del Greatest Hits (2001) della band. Check My Brain e Hollow, dagli album con DuVall, sono già dei classici e hanno confermato che il nuovo corso si merita tutto l’amore del pubblico entusiasta. È stato un concentrato di grandi successi da urlare a squarciagola, comprese alcune chicche – Got Me Wrong nei bis – intercalate a nuovi inni, come Your Decision e Last of my Kind. William (basta definirlo il nuovo cantante: è nella band da dieci anni e ha contribuito alla rinascita) si trova a suo agio come agitatore della folla, che tiene in pugno, valorizzando i brani di Layne senza lo spauracchio di coverizzarli.
Si potrebbe aprire una noiosa discussione sull’andare avanti senza un frontman così determinante, ma agli Alice In Chains non va rimproverato di avere proseguito, perché lo hanno fatto senza fretta e con la soluzione migliore. L’ugola di William riesce a fondersi con la voce di Jerry e a ricreare quella magia che, seppure inevitabilmente diversa, continua a stregare. Non dimentichiamo che gli Alice si videro ostacolata, ridimensionata e infine stoppata la carriera. Tutto in breve tempo, neanche l’occasione di assaggiare la meritata gloria che tossicodipendenza e tour annullati ne minarono il futuro. Il legame umano alla base dei Chains, però, chiuse a riccio le vicende del gruppo, oggetto del gossip musicale nei ’90, che non volle mai – parola di Cantrell – fare ricadere l’intera responsabilità dell’impasse solo su Layne Staley. Lo si venne a sapere a giochi finiti ma, allora, la band si sciolse per sei mesi: troppo scoppiati i membri, spremuti dall’esplosione del grunge e dagli eccessi; troppo malcontento uno verso l’altro, con nessun santo e nessun colpevole esclusivo. Saltarono Woodstock ’94, tournée mondiali da headliner e una statunitense di spalla ai Metallica, gettando fuori dalla finestra milioni e milioni di dollari. “Siamo stati l’unica band della storia a non andare in tour con due lavori consecutivi in vetta alle chart di mezzo mondo” – ammise Jerry. Anche alla luce di ciò hanno il diritto di perpetrare la leggenda, non dovendo dimostrare e giustificare niente a nessuno.
Aggrappati ai ricordi si muore ed è già morta gran parte di quell’innocenza in camicie di flanella. Se sull’onda della memoria si costruisce qualcosa di nuovo, invece, si fa di quel ricordo il fondamento di un percorso che unisce le epoche e i vissuti. Nel caso di Layne Staley e gli Alice In Chains, questo si tocca a un livello più generale. A Seattle, con chiunque parlassi – testimoni della scena, rocker ingrigiti, semplici fan – e in qualunque club andassi – di quelli storici ce n’è ancora – il suo ricordo è così vivido che sembra non essersene mai andato. La sua eredità è ancora in giro coi compagni di band, sui palchi di mezzo mondo. Sotto, supporter di ogni età; come quelli del gruppo e della pagina Facebook Alice In Chains Italia, per aiutare i fan di tutto il Paese a raggiungere l’evento e a goderselo. È la dimostrazione di come i social possano avvicinare e non solo alienare le persone. Stare insieme, anche per chi non canta più con noi: è l’unico modo per trasformare i fantasmi in angeli.
(Giuseppe Ciotta)
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