“Non si esce vivi dagli anni 90”, ma d’altro canto già negli anni 40, il primo in assoluto del cosiddetto club dei 27, il cantante country Hank Williams, dal punto di vista estetico il cantore della classe bianca agiata di provincia, da quello personale invece un devastante flirt con l’eroina che lo portò a morire nel sedile posteriore di una Limousine, solo e abbandonato cantava già “Non si esce vivi da questo mondo”. Filosofia spicciola in chiave zen, ma anche una tragica realtà.
Quasi tutti i grandi protagonisti di quell’ultimo momento di gloria del rock’n’roll, la rivoluzione grunge, il post grunge, insomma gli anni 90, se ne sono andati da questo mondo, o per essersi sparati in bocca, o per essersi attaccati con una corda in bagno magari vent’anni dopo, tenendo nascosto a lungo il demone che dentro li stava divorando fingendo di stare bene, o sono impazziti, vedi il caso di Sinéad O’Connor. Da Kurt Cobain a Dolores O’Riordan, da Chris Cornell a tanti altri, quella generazione ha pagato un prezzo troppo alto e inaccettabile, ma tant’è: non si esce vivi da questo mondo quando sei figlio di genitori cresciuti nell’utopia hippie, nella trasgressione (?) del sesso libero, negli innumerevoli divorzi, nel crollo di ogni utopia, fosse quella libertaria degli anni 60 che quella yuppie degli anni 80. A quei ragazzi non era rimasto che buttarsi nel sacro fuoco del rock’n’roll per dichiarsi “out”, fuori della società, ma neanche quello si era rivelato sufficiente.
Erano una Generazione X, e hanno pagato per i peccati di altri.
Quando nel giugno 1995, inizialmente inosservata, poi con una esplosione da decine di milioni di copie vendute, arriva sulle scene una ragazzina canadese che da piccola aveva inciso dischi di musica da chiesa e partecipato a programmi tv per ragazzini con un disco intitolato “Jagged Little Pill” (piccola pillola seghettata, probabile riferimento agli anti depressivi di cui quella generazione faceva abbondante uso), il mondo della musica viene scosso ancora una volta, come successo con “Nevermind” dei Nirvana, da una nuova inaspettata bomba sonica. Solo che lei, finalmente, era una donna, e finalmente si poteva sentire in canzoni rock il punto di vista delle donne. I suoi testi prendevano spunto esclusivamente da esperienze personali, come la serie di insulti rabbiosi nei confronti del maschio sfruttatore, Mr. Duplicity, con una raffica di insulti come non si era mai sentita prima, o quando raccontava dell’ambiente maschilista e sessista delle case discografiche. .
Raffiche di rivendicazione femminile così violente e senza sconto che le attrici hollywoodiane sui loro tacchi a spillo della campagna #metoo in confronto fanno ridere: “I want you to know, that I am happy for you I wish nothing but the best for you both An older version of me Is she perverted like me? Would she go down on you in a theater? Does she speak eloquently And would she have your baby? I’m sure she’d make a really excellent mother”. You Oughta Know è il miglior f….culo di una donna tradita e e umiliata dai tempi di Think di Aretha Franklin :“And I’m here, to remind you Of the mess you left when you went away It’s not fair, to deny me Of the cross I bear that you gave to me You, you, you oughta know”.
Ma non è solo la rabbia di una donna tradita e presa in giro, è una accusa sputata al suono del miglior rock’n’roll viscerale che macina riff hard blues che si possa sentire in giro: “Did you forget about me, Mr. Duplicity? I hate to bug you in the middle of dinner It was a slap in the face How quickly I was replaced And are you thinking of me when you fuck ber?”. E la voce: anchese qualche buontempone si azzarda a scrivere della nuova Janis Joplin, la Morissette possiede una estensione vocale impressionante: un urlo che viene dal più profondo delle viscere della disperazione.
Poco più di vent’anni dopo, Alanis Morissette è un’altra donna, almeno nella vita privata. E’ madre, ha tagliato i suoi caratteristici lunghi capelli che ne facevano una icona di quegli anni 90 con un taglio che lei stessa definisce “da segretaria”, ha scoperto che nella vita è necessario anche essere riconoscenti e vivere la gratitudine nonostante tutto, già col secondo disco che conteneva la splendida e toccante Thank You: How ‘bout me not blaming you for everything How ‘bout me enjoying the moment for once How ‘bout how good it feels to finally forgive you How ‘bout grieving it all one at a time Thank you India Thank you terror Thank you disillusionment Thank you frailty Thank you consequence Thank you thank you silence”. Ed è così che forse è uscita viva dagga anni 90.
Alanis non fa un disco nuovo da be sei anni, “Havoc and Bright LIghts”, ma nonostante questo fa concerti e quando sale sul palco tutto si cristallizza ed è di nuovo anni 90. Qualcuno potrà dire che è il suo limite, non essere stata capace di trovare nuove strade musicali, ma la capacità di aver preservato un suono e una attitudine appaiono veri, onesti, esaltanti. La sua esibizione, al Milano Summer Festival stipato in ogni ordine di posti, comincia con una esplosiva All I Really Want tirando fuori di tasca come farà per tutto il concerto la sua armonica, quasi a prolungare quel grido, ci fa sentire che è passata attraverso una epoca di distruzione di massa per uscirne viva, ed è già molto. E quella musica suonata esattamente come vent’anni fa, sembra quasi un tributo a chi invece non ce l’ha fatta: come, dire, è troppo bella, eravamo troppo belli per buttare via tutto. E’ quasi un tributo.
Con una potenza vocale semplicemente devastante, capace di tirare in lunghissimo le note, senza fermarsi un secondo attraversando il palco avanti e indietro a passi sostenuti, mostrando una energia fisica da ventenne, ha intonato tutto “Jagged Little Pill” più altri brani dagli altri suoi dischi, ad esempio la meravigliosa Uninvited. Una band tostissima costituita da due chitarristi che, in pura lezione anni 90 hanno macinato riff devastanti inserendo tocchi di classe con l’uso anche di una Rickenbacker, senza mai tentare assoli, se non nel finale stratosferico e cosmico di Wake Up, dove la Morissette diventa una marionetta impazzita che gira su se stessa vorticosamente, che striscia per terra come un serpente, che si getta sul batterista in un crescendo musicale di violenza travolgente. Kurt Cobain e Chris Cornell sorridono da dietro la luna piena che si è alzata di fronte al palco per questa ex ragazzina che tiene alta la voce di una Generazione X che voleva solo amore, un abbraccio mai ricevuto, un cuore.
Non manca certo Ironic, in versione grintosa ed elettrizzante catara dal tutto il pubblico come quasi tutti i brani della serata (a cantare sono soprattutto le donne, e questo la dice lunga di quanto Alanis Morissette abbia inciso sulla questione femminile), quel pezzo che forse ancora di più ha definito la filosofia di questi ragazzi in cerca di una risposta: “La vita ha un modo buffo di rivoltarti, quando credi che tutto vada bene e la vita ha un modo buffo di aiutarti quando pensi che tutto sia andato nel modo sbagliato e ogni cosa ti si è rivoltata contro la tua faccia: un ingorgo stradale quando sei in ritardo, un divieto di fumo quando accendi la sigaretta, è come incontrare l’uomo dei miei sogni e poi la sua bellissima moglie, è ironico, non credi, come la pioggia il giorno del tuo matrimonio, un viaggio gratuito quando hai già pagato, è un buon consiglio che tu hai ignorato, è quell’uomo che ha aspettato tutta la vita per fare un viaggio, ha baciato i suoi bambini e fatto la valigia, ha aspettato tutta la sua vita del cazzo per quel viaggio e mentre l’aereo si schiantava ha pensato, be’ questo è forte, non è ironico?”. Perché la vita, come diceva John Lennon, “è quel che ti succede mentre sei impegnato a fare qualcos’altro”.
Con un bassista di colore che nel resto della vita probabilmente suona jazz vista la sua bravura, alto due metri, che zompava su e giù per il palco e teneva insieme tutto il gruppo con note di poderosa classe, due chitarristi semplice ma efficaci, un batterista potentissimo, un ottimo organista all’Hammond e al piano che svisava con classe, il sorriso stampato sul volto di Alanis dall’inizio alla fine (senza mai guardare come fanno tutti i cantanti, il pubblico di fronte a lei ma quasi sempre girata di lato come per timidezza), l’artista canadese ha regalato un concerto di purissimo rock’n’roll che suona ancora fresco e incalzante, per niente datato, con una voce che ancora oggi non ha paragoni nella scena e inondando il pubblico presente di gioia semplice e innocente. Tutta la band saltava e correva con lei, in una baraonda festosa sul palco come si vede raramente. Ne abbiamo bisogno di questi tempi.