“Andate ad un concerto di sessantenni!”. La moglie del mio amico mi prende bonariamente in giro, anche se, quella musica, lei non la disdegna affatto. D’altra parte un po’ ha ragione. Questioni d’età a parte, le canzoni che stiamo per andare a sentire sembrano davvero appartenere ai tempi andati. I miei figli, tanto per dirne una, hanno sentito parlare del passaggio in Italia dei Pearl Jam e quelli, per loro, fanno parte degli Oldies, mentre noi, genitori, ci ostiniamo ancora a chiamarlo alternative rock. Se poi tiriamo in ballo Dylan e i Beatles, credono che si tratti dell’era dei dinosauri e a niente vale fargli vedere Paul McCartney nell’ultima puntata del Late Late Show with James Corden, mentre gira per Liverpool facendo impazzire una montagna di gente. Sorridono, tutt’al più inteneriti, per poi indossare le cuffie e tornare alla loro musica rap. Eppure questa sera vale davvero la pena di andare a Pusiano, sulle sponde del lago, per assistere al ritorno in Italia dopo tanti anni di Steve Earle, all’interno di quei Buscadero Days che ci accompagnano lungo le rive della buona musica da dieci anni.
Loro, i nostri figli, ascoltano la musica rap (e la trap), pensando che i fuorilegge appartengano alla loro generazione, ma se fossero venuti qui ne avrebbero incontrato uno vero, in carne ed ossa. Un po’ invecchiato, certo – i suoi 62 anni li dimostra tutti, anche se assomiglia ad un Hells Angel appena sceso di sella dalla sua Harley – ma è un outlaw a denominazione d’origine controllata e garantita. Origine che pianta le radici addirittura nella band di Guy Clark, dove un Earle appena diciannovenne suona il basso, per poi far crescere la piantina all’ombra degli unici depositari a pieno diritto del brand originale: Waylon Jennings e Willie Nelson.
E Waylon è quello che ad un certo punto prende una canzone di Steve – The Devil’s Right Hand – e la include, nel 1995, nel terzo disco di The Highwaymen, il supergruppo formato insieme a Nelson, Johnny Cash e Kris Kristofferson. Willie, poi, dal momento in cui lo nota non lo lascia più, cantando anche nell’ultimo album di Earle, uscito l’anno scorso e che, guarda un po’, si chiama proprio So You Wanna Be An Outlaw.
Il fatto è che Steve Earle è diventato negli anni un personaggio di spessore e nessuna storia della musica americana può pensare oggi di prescindere dalla sua figura. 16 album alle spalle, scrittore di racconti, attore, e fuorilegge – ebbene sì – anche nella vita. Guardando al suo passato – sette matrimoni alle spalle, una lunga dipendenza dalla droga, un paio di mesi passati in galera a metà degli anni novanta – sembra che sia lui il vero personaggio del racconto e del disco da lui pubblicati nel 2011 e che portano il titolo di una celebre canzone di Hank Williams, I’ll Never Get Out Of This World Alive. Invece, dalle avversità della vita, Steve sembra essere uscito, se non vegeto, sicuramente rinforzato, e forse persino più sereno: “finalmente ho trovato una ragione per svegliarmi al mattino”, racconta a Simon Hattenstone, in un’intervista per The Guardian dello scorso anno. E la ragione ha il volto di un figlio, quello, autistico, nato dal suo ultimo matrimonio con Allison Moorer, dalla quale si è separato quattro anni fa: “So perché alzarmi al mattino: fare in modo che tutto possa andare bene per Jonh Henry quando io non ci sarò più. Questo è il mio lavoro, adesso”.
Quando Earle ed i suoi Dukes salgono sul palco, è impossibile non avere a cuore tutto questo. Oltretutto la serata si preannuncia bene: il clima è fresco e l’ambiente, a ridosso del lago, assai piacevole. Della solidità dei musicisti, poi, abbiamo già avuto un assaggio, dato che lo stesso Steve presenta The Mastersons, ossia Chris Masterson e sua moglie Eleanor Whitmore, rispettivamente chitarrista e violinista della band, mandati ad aprire il concerto con una manciata di loro brani. Certo, il clima da sessantenni un po’ si percepisce, con tutte quelle sedie disposte davanti al palco e sulle quali, con disinvoltura, all’inizio ci mettiamo anche noi. E l’inizio, complice un’infelice amplificazione (sistemata, però, dopo le prime canzoni), appare effettivamente anch’esso un po’ seduto, Earle alle prese con le canzoni tratte dal suo ultimo disco, ma ancora poco roboante, come un aereo che ha acceso i motori, ma attende a decollare. So You Wanna Be An Outlow, Lookin’ For A Woman, The Firebreak Line, Walkin in LA e Sunset Highway sono la pista di decollo lungo la quale lanciare lo show, che comincia ad accendersi quando Steve passa dalla chitarra elettrica all’acustica ed introduce News From Colorado, con un filo di tristezza sul volto, dicendo che quella canzone l’aveva inizialmente composta Allison Moorer, chissà, forse l’unico vero amore della sua vita, aggiungeremmo noi. Tre minuti – ma, lo sappiamo, le migliori canzoni rock, quelle che contengono tutto il mondo, durano così – e siamo di nuovo su quella nowhere road che porta avanti e indietro da San Antonio a Nashville.
I tre brani successivi – My Old Friend The Blues, Someday, Guitar Town – escono fuori da quel disco – Guitar Town, appunto – che, a metà degli anni ottanta, fece capire che era nata una stella, piazzata a metà strada tra il country dal sapore nuovo di Dwight Yoakam e quelle certezze rock che già portavano il nome di Bruce Springsteen e John Mellencamp. E’ giunta l’ora ed anche noi non ce la facciamo più a stare seduti. Così arriviamo ai lati del palco nel momento in cui Steve attacca I Ain’t Ever Satisfied. E’ l’istante in cui il pubblico comincia a far capire che c’è, cantando in coro anche quando la canzone è finita. Steve allarga le braccia, guarda la gente, potrebbe girarsi, compiaciuto, e dire alla band di riattaccare, invece passa con disinvoltura al brano successivo, I’m Still In Love With You – tratta dal bellissimo The Mountain. Schivo e selvaggio, sempre. Come un vero outlaw, appunto.
You’re The Best Lover That I Ever Had è l’intermezzo prima del vero decollo. “Non credo ai confini” – comincia a raccontare Steve – credo invece nella giustizia, nell’amore, nella pace”. Il suo impegno sociale, la passione politica, sempre controcorrente, vengono fuori senza fastidiosi proclami. “Il mio coinvolgimento in politica non considera il modo in cui va il mondo, ma guarda verso ciò che il mondo dovrebbe essere”, ha dichiarato un po’ di tempo fa. “Credo in una Gerusalemme per tutti”, aggiunge stasera e poi attacca proprio con Jerusalem, una delle sue canzoni più belle, con quei versi che sanno di profezia: “But I believe there’ll come a day when the lion and the lamb / Will lie down in peace together in Jerusalem / And there’ll be no barricades then / There’ll be no wire or walls / And we can wash all this blood from our hands / And all this hatred from our souls / And I believe that on that day all the children of Abraham / Will lay down their swords forever in Jerusalem”.
Da quel momento in poi, il concerto vola senza attraversare turbolenze. Steve imbraccia il mandolino, ricorda le sue collaborazioni con i Pogues, e si lancia in Johnny Come Lately, canzone che narra di un veterano del Vietnam, ma che in fondo è adatta ad ogni tempo. E subito dopo è il momento di The Galway Girl, in cui compare anche una fisarmonica sul palco, a dirci che Dublino e il Texas non sono poi così distanti tra di loro. Con le successive Little Emperor ed Acquainted With The Wind si passa dall’honky tonk al puro rock’n’roll ed è impossibile restare fermi, non respirare tutta quell’energia, così che quando arriva Copperhead Road ci sono pure i fantasmi che girano sul palco, luci verdi che, a tratti, avvolgono i musicisti, Steve e tutti noi, attori e spettatori dello show.
Il concerto ha preso la piega giusta, la chitarra di Masterson, che, con quel suo caschetto di capelli, a tratti fa venire in mente anche Tom Petty – fantasma salito sul palco pure lui – imperversa in lungo e in largo, mescolando con nonchalance solide strutture ritmiche e taglienti assoli, mentre la pedal steel incornicia degnamente le melodie di ogni brano. Taneytown, tratta da quel capolavoro di disco che è El Corazon, è splendida. Troubador e The Week Of Living Dangerously mantengono il clima elettrizzante, mentre un basso pulsante segna il ritmo su If Mama Could Seen Me, che è suonata senza soluzione di continuità con Fixin’ To Die, potente brano proveniente dall’ultimo disco. Poi arriva Hey Joe – cover del brano di Jimi Hendrix ed ultima canzone prima dei bis finali – ed è una canzone liberatoria, senza tempo, che conquista anche l’ultimo spettatore rimasto ancora là in fondo, sull’ultima sedia.
Solo un breve intervallo ed Earle e i suoi Dukes risalgono sul palco. Dixieland e Ben McCulloch sono bluegrass, country e rock suonati con l’energia che possiede solo il punk, ma sono solo un preludio alla gemma finale. “Quando ho scritto questa canzone – comincia a raccontare Steve – le cose in America non andavano bene, ma non pensavo che sarebbero potute andare anche peggio”. Accenna, a modo suo, ai migranti, dice che se c’è una cosa che ha imparato è che gli uomini non fanno altro che spostarsi e che non ha mai conosciuto nessuno le cui origini siano nello stesso posto in cui vive. E poi, sì, dice anche che la musica non può cambiare il mondo: questo, ormai, l’ha imparato anche lui. Ma aggiunge che quella musica va cantata forte e così attacca la sua Christmas In Washington: “So come back Woody Guthrie / Come back to us now / Tear your eyes from paradise / And rise again somehow / If you run into Jesus / Maybe He can help you out / So come back Wood Guthrie / Come back to us now”. E’ Il degno finale di un bellissimo concerto, qualcuno dice anche il migliore di Earle dalle nostre parti. L’uomo saluta, ringrazia ancora una volta i musicisti ed il suo pubblico e se ne va così come è arrivato, senza fronzoli.
Cantava Bob Dylan che per essere fuorilegge è necessario essere onesti e Steve sembra aver pagato il prezzo di una vita che non gli ha mai fatto sconti. Rimaniamo lì, a guardarlo ancora un po’, prima che se ne vada, in viaggio verso la prossima tappa di un lungo tour, non prima di aver salutato il suo pubblico con un braccio e il pugno alzato, come il giovane combattente di un tempo. Ma noi, questa sera, rimaniamo affezionati più al suo volto che, per quanto apertosi più di una volta in un sorriso, ha mostrato intatte tutte le ferite. Ed a quello spiraglio di speranza che, in un modo o nell’altro, non sembra mai venire meno. Perché Woody Guthrie, Malcolm X e Martin Luther King non rinasceranno da qualche parte di nuovo, ma giustizia, pace, amore e libertà sono desideri destinati a non morire nel cuore di ogni uomo, anche in quello di un fuorilegge. Sarà pure stato un concerto di sessantenni, quello di stasera, ma questa non è musica per vecchi.