È una sera del 2015 a New York, una serata importante, alla presenza del presidente Barack Obama. Vengono consegnati i Kennedy Center Honors, l’onorificenza civile più alta d’America a personalità dell’arte, della cultura, della vita pubblica che si sono distinte per il loro contributo. Tra le personalità prescelte quest’anno la cantante e autrice Carole King, stella della musica pop sin dai primi anni 60, come autrice di hit per altri e poi interprete lei stessa. È previsto che alcuni artisti si esibiscano in loro onore.
A un certo punto sale sul palco lei, Aretha Franklin, che il mondo conosce come la Regina della musica soul. È già malata da cinque anni di tumore al pancreas, ma nessuno lo sa. La sua figura, d’altro canto, è sempre quella imponente che si conosce, maestosa, elegante, incarnazione vivente dell’anima afroamericana. Ha 73 anni. Si siede al pianoforte e attacca un brano di Carole King, quello che, inciso alla fine degli anni ‘60, fece di Aretha la regina incontrastata non solo del soul, come era già, ma della musica tutta. È un brano che è una motivazione di intenti, quella dei diritti delle donne, si intitola (You Make Me Feel Like) A Natural Woman. Carole King resta a bocca aperta, mentre lei si esibisce in una performance che lascia tutti allibiti e in lacrime, piange anche il Presidente degli Stati Uniti. Non si può cantare in modo così straordinario, maestoso, spirituale, femminile, glorioso. Eppure la Franklin ha una lunga carriera alle spalle e tutti conoscono le sue doti. Ma quella sera del 2015 esegue la sua più straordinaria performance. Forse già un addio, forse un presagio, certamente una dichiarazione di amore alla vita e alle cose grandi che la vita dona. Il suo ultimo regalo.
Aretha Franklin è morta ieri a 76 anni, aveva da tempo diradato le sue esibizioni, aveva cancellato lo scorso marzo tutti i concerti. La malattia l’ha portata via il 16 agosto, lo stesso giorno in cui era morto il Re del rock, Elvis Presley, nel 1977, e nel 1938 Robert Johnson, il Padre del blues. Coincidenze? Certamente, ma altamente significative, come se la Santa Trinità della musica si fosse ricongiunta in cielo lo stesso giorno. Aretha Franklin è stata la più grande voce femminile del 900 e probabilmente di sempre. Non c’è Maria Callas che tenga, scusate l’iperbole, ma è così. Perché Aretha ha espresso la voce di un popolo intero, quello afroamericano, nelle sue forme più pure ed emozionali: il gospel, il blues, l’R&B, il soul. Di più, è stata l’interprete dei sentimenti e del cuore di ogni uomo in ogni latitudine del pianeta. Non ci sarà mai più un’altra come lei o come Elvis perché è cambiato il mondo: quella che era speranza, oggi è cinismo; quello che era desiderio di libertà oggi è paura ed egoismo; quella che era fede oggi è il vuoto.
Il suo disco del 1987 “One Lord One Faith, One Baptism” è il più venduto della storia del gospel, ancora più di quelli dalle vendite milionarie di Elvis, e questo significa parecchio. Naturalmente tutti la ricordiamo per la straordinaria apparizione, nel 1980, nel film “The Blues Brothers” dove interpreta la moglie del chitarrista della band, proprietaria di una rosticceria, nell’interpretazione del brano Think, celebrazione immensa ancora una volta della libertà della donna, ma non c’è angolo della sua carriera che non meriti di essere riscoperto, anche le pagine meno brillanti degli ultimi anni, inevitabili concessioni alla legge del mercato contemporaneo. Una storia cominciata nel 1956 con il primo album, “Songs of Faith” e continuata per decenni, 21 Grammy Awards, 52 album pubblicati, duetti memorabili, canzoni indimenticabili, tra cui oltre le già citate, Respect e I Say a Little Prayer. Che è tutto quello che ci sentiamo di fare, adesso: dire una piccola preghiera per chi ci ha regalato la Bellezza con la B maiuscola.