Inutile inventarselo: la musica non viene quasi mai da “dentro”. La musica vera viene provocata da un “fuori”, da storie e situazioni, persone e sguardi. Una conversazione, una lettera, un ricordo. Sono le vicende a suscitarla, a muovere la memoria e il cuore, a chiamare alla vita melodie e intenzioni. La musica, appunto, si impone raccontando la vita. 



Coinvolto in una serie di attività artistiche legate alla memoria storica dell’Isola di San Servolo, sede per oltre un secolo dell’ospedale psichiatrico, Michele Gazich nel momento più ricco della sua lunga carriera internazionale (è nel mezzo di una lunga tournée con Mary Gauthier, folksinger della Louisiana, con cui sta proponendo tra gli States e l’Europa Rifles & Rosary Beads) ha follemente deciso di confrontarsi con un mondo passato, con un insulto rabbioso che a fatica qualcuno tiene vivo nella memoria. E così la storia degli ebrei veneziani internati a San Servolo prima di essere “ritirati” con destinazione lager (sia verso quelli tedeschi che alla risiera San Sabba, a Trieste) è diventata un disco, Temuto come grido, atteso come canto (FonoBisanzio), album che appare come un’opera di consapevolezza storico-artistica, assolutamente anacronistica nei tempi della non-coscienza.



Negli archivi di San Servolo il musicista lombardo ha trovato tracce e lettere, storie e memoriali, documenti ufficiali e cartelle cliniche da cui emergono sofferenti le storie degli ebrei veneziani e dei loro aguzzini. Qui la storia è diventata grido e canto, per opera del cuore vigoroso di Gazich. Undici sono le canzoni che ne sono emerse e che compongono il disco. Ognuna è una vertigine differente: L’isola (“isola che mai sarai casa”) racconta di chi “consuma tutti i suoi giorni”, mentre la “mente svanisce e marcisce il cuore”; “Vivo bloccata tra corda e corridoio”, dice Alice la bambina, lei che “adesso vola nel cielo”; Bifronte è “Mentre il mare danza”: prima rabbiosa e ritmica, poi sospesa, dolcissima e ipnotica; “Euridice” è la maledizione di chi non può sfuggire ad un destino, indeciso tra violenza e follia. 



Il disco di Gazich s’avviluppa doloroso canzone dopo canzone, in un contesto che (come sempre per questo autore) alterna il folk alla musica da camera. L’ignominia del potere sgorga senza veli in “Torquemada”, lungo recitato in cui vengono declamate le folli descrizioni “cliniche” che il medico nazi-fascista di San Servolo lasciava sulle cartelle dei pazienti, mentre “San Sebastiano” dipinge la vicenda biografica di un giovane musicista stroncato dagli elettrochock prima di essere deportato e perso definitivamente nella Germania dei lager.

Undici canzoni, undici storie, ma su tutte si eleva “Debora”, lentissimo lamento pianistico che lancia domande lancinanti e vicine ad ogni dolore: “Cade su di me la tua rabbia, Cade ogni mattino su ogni fiore, La tua misericordia sarà cantata nei sepolcri, Dai cori dei morti tuoi fedeli Padre, Signore, se hai figli, se hai un regno, Ricordati di noi nell’ora della nostra vita, La tua violenza non perdona, Dio padre, Siamo vicini, prova a pregare, Tu che uccidi ogni respiro, Colpisci e nascondi il pugno, Perché aprire al cielo le mie mani, E pregarti ancora?”, domande su quel tragico “silenzio di Dio” che da Elie Wiesel a Benedetto XVI ricorrono da alcuni decenni inseguendo la lotta tra misericordia e rabbia, tra giustizia e ignominia.

Non facile (come è ovvio), ma potente e dolente come un film di Herzog, Temuto come grido, atteso come canto è un disco che alterna punte di delicatezza poetica a citazioni che feriscono il cuore, in un vocabolario sonoro che per forza di cose ricorda nelle sue motivazioni poetiche Bela Bartok e De André, Cohen e quelle tradizioni mitteleuropee e klezmer. Con Gazich al lavoro sul disco ci sono i suoi collaboratori storici (Michele Lamberti alle chitarre, Paolo Costola alla produzione e un po’ ovunque, Alberto Pavesi alle percussioni), mentre il corposo libretto del cd presenta le illustrazioni di Alice Falchetti, che reinterpreta in chiave di espressionismo tedesco i volti e le anime dei singoli “personaggi” di San Servolo. 

Il percorso del musicista bresciano conferma anche con questo cd di essere di un altro pianeta, come già indicato anche dagli ultimi sui lavori (La via del sale, La nave dei folli, Una storia di mare e di sangue), gemme di una canzone che si confronta con la vita e con il presente, che non disdegna il sacro, il profano, il sangue, la storia, le maledizioni, le testimonianze, le profezie. E’ una musica senza paure e senza remore, la sua: è “arte” nel senso brechtiano del termine come ciò che contribuisce ad insegnare a vivere. Nelle note del nuovo disco, Gazich scrive “Ho scelto di fare memoria coinvolgendo attivamente anche il significante, le parole, che divengono mattoni di memoria per costruire canzoni-case di memoria”. La voce di Gazich declama e scortica le parole scovate nei bassifondi di San Servolo, tra passato e futuro, noncurante di un mondo che va alla deriva tra starlette, personaggi inutili e canzoncine di 2 minuti, invocando e provocando (forse) una nuova rivoluzione umana e spirituale. Una rivoluzione che è scoperta di dignità e ricerca di nuove forme di umanità.