Nei giorni scorsi sono stati assegnati a Londra i Progressive Awards 2018, nell’ottava edizione del più importante evento dedicato a quel genere musicale che dalla fine degli anni Sessanta incrocia rock, musica classica, visioni sinfoniche, influenze jazz e radici celtico-folk.
A far la parte del leone negli Awards 2018 è stato il fondatore dei Procupine Tree, Steven Wilson, per l’album della sua maturità (To the Bone, quinto lavoro della sua produzione personale). Altri premi sono andati al più grande chitarrista del progressive, nonché uno dei più influenti di tutta la storia del rock, Steve Howe (Yes), a un autore come Gary Brooker (Procol Harum), ai britannici Big Big Train, ai Caravan (i capostipiti del Canterbury Sound), all’Alan Parson Project, a Phil Manzanera (chitarrista dei Roxy Music).
Anche l’Italia ha avuto il suo bel momento di gloria, con la Premiata Forneria Marconi, premiata per il suo ritorno sulle scene internazionali con l’album Emotional Tattoos, ultimo lavoro della band milanese che Oltremanica (e nel mondo del progressive) ha un posto di assoluto rilievo.
Ma i premi dell’Award britannico sono stati destinati a prodotti del 2017. E nel 2018? Ecco qualche suggerimento per chi ama o non disdegna il genere.
GURU GURU: ROTATE!
Negli anni d’oro del krautrock, quando le band tedesche erano comunque al centro dell’attenzione per follie sperimentali e anarchia compositiva (e in concerto), i Guru Guru erano una delle formazioni più legate alla forma “aperta” e lisergica di produzione musicale. Meno noti di Can e Amon Duul, ma forse anche più sperimentali di questi nomi del rock tedesco, la band ha registrato qualche pietra miliare del genere (il leggendario UFO nel 1970, poi Kanguru, Dance of the Flames e Tango Fango, 1976), vivendo in una comune anarco-socialista non lontano da Heidelberg, dove ancora oggi si tiene il più importante festival di krautrock, il FinkiFestival.
Gli ups and downs di carriera, le dipartite più o meno consapevoli, l’afflosciarsi del genere hanno fatto sì che i Guru Guru rimanessero in attività soprattutto per il pubblico tedesco, mentre il resto del mondo ne perdeva le tracce. Ora attorno al batterista Mani Neumeier la formazione (che oggi vede anche Peter Kühmstedt al basso; Roland Schäffer alle chitarre e ai fiati; Jan Lindqvist, alle chitarre e tastiere), che è comunque rimasta sempre in attività, pubblica – dopo il fortunato doppio 45 Live, di tre anni fa – un nuovo album davvero importante, stimolante, coraggioso e convincente. Si tratta di Rotate!, un disco importante e robusto, mix autorevole di space rock, suoni sperimentali e anarchia progressive.
Il pezzo chiave di tutto l’album è I Missed So Many Shootingstar, una potentissima pseudo-ballad romantica, che da un lato offre insolite aperture melodiche, per poi deflagrare e dilungarsi improvvisamente in una suite chitarristica a mezza via tra Quicksilver e Pink Floyd. Ma tutti gli undici brani dell’album offrono spunti adrenalinici d’altri tempi, sapendo gestire con furbizia anche spunti di free jazz (Digital Analog) e campionature (Anaconda) messe al servizio di un disco che comunque è governato da una percezione fortemente psichedelica (I am a Spaceboy) della musica. Fedeli alla linea di un tempo, ancora ricchi di creatività, rivoluzionari e anarchici come ai loro tempi giovani, i Guru Guru si candidano così alla loro seconda (o terza) giovinezza artistica. E visto il risultato, si fa fatica a biasimarli.
BIG BIG TRAIN: MERCHANTS OF LIGHT
Tra le band emerse dalla monumentale tradizione del progressive inglese (che è stata la vera fucina del genere, da Yes a Genesis, da ELP a Renaissance), una posizione di prestigio se la sono conquistata negli ultimi anni i Big Big Train. Questa vasta formazione guidata dal polistrumentista Gregory Spawton, nonostante la ridotta notorietà è in circolazione da oltre venticinque anni, ha sempre evitato le cadute nel progr-metal e ha appena pubblicato il suo secondo ottimo live, Merchants of Light. Sedici titoli tratti soprattutto dai titoli dell’ultima produzione, da Underfall Yard (2009) a Second Brightest Star passando da Folklore, album che hanno posizionato la band nei piani alti della scena internazionale, conducendoli proprio a un premio all’interno dei Progressive Awards 2018.
La formazione attuale è affidabile e propone un sound equilibrato e maturo: Nick D’Virgilio (drums) ha militato nei Genesis ed è uno dei batteristi preferiti da Phil Collins; David Longdon (vocals e strumenti vari) ha lavorato con Steve Hackett; Rjkard Sjoblom (guitars) è strumentista pulito al limite del virtuosismo; Rachel Hall (violino) è perfetta nella capacità di legare rock e sinfonica; da ultimo, Dave Gregory, entrato in formazione da quattro dischi, è stato a lungo il chitarrista degli XTC di Andy Partridge e Colin Moulding.
Nel nuovo live ascoltare Victorian Brickwall è una bellissima esperienza sonora ed emotiva, un pezzo costruito a suite (sedici minuti), che richiama i migliori Genesis per capacità di coinvolgimento e di enfasi. Anch’essa lunghissima, East Coast Racer conduce invece sui sentieri criptici dei Van Der Graaf, ma conferma che la band di Bournemouth ha idee chiare sulla propria capacità di prolungare il discorso del progressive ben oltre l’età anagrafica dei padri fondatori.
SOFT MACHINE: HIDDEN DETAILS
Premessa: è piuttosto difficile catalogare i Soft Machine all’interno di un puro discorso di progressive rock. Tra le band preminenti del cosiddetto Canterbury sound, questa formazione creata da David Allen, Kevin Ayers, Mike Ratledge e Robert Wyatt nella prima metà degli anni 60 è decisamente la meno identificabile. Troppo sperimentale per essere solo rock, troppo psichedelica per essere solo jazz, troppo fusion per essere unicamente progressive, i Soft Machine hanno intinto il proprio pennello in colori d’avanguardia, facendosi influenzare più da Miles Davis che dal rock’n’roll o da Stravinskji, sfoderando alcuni album memorabili (l’esordio, Volume Two, Third, Bundles….) e perdendo poi per strada componenti indimenticabili (Elton Dean, Robert Wyatt…).
Oggi i Soft Machine ritornano in pista con Hidden Details, a 37 anni da Land of Cockayne (datato 1981), ultimo prodotto attribuito “ufficialmente” alla band. Il ritorno di una formazione leggendaria a un vero e proprio disco dopo qualche decina d’anni non è cosa da tenere in silenzio, soprattutto perché a inciderlo ci sono alcuni degli strumentisti che hanno frequentato 50 anni fa questa formazione: John Marshall (batteria), Roy Babbington (basso) e John Etheridge (chitarre); Theo Travis (ai fiati e tastiere, già collaboratore di Robert Fripp) è in effetti l’unico musicista a non aver mai inciso un disco con la band negli anni d’oro.
L’album è un notevole esercizio di jazz-rock sperimentale con un paio di riletture di brani dal catalogo. In tutto il lavoro la chitarra di Etheridge (che già negli anni 70 si era preso il compito impegnativo di far dimenticare Allan Holdsworth) occupa importanti spazi del discorso, annodando i fili di One Glove, guidando il softjazz di Broken Hill o la ballata intimista Heart off Guard. L’apertura dell’album (la “title track”) già dichiara le intenzioni rinnovate dei Soft Machine in un gioco a inseguimento tra sperimentalità fusion e ritmiche incalzanti, mentre The Man who Waved at Trains (rilettura tratta da Bundles) permette a Babbington di governare in modo limpido l’interplay tra gli strumentisti.
Due i brani che sovrastano l’orizzonte dell’album: Life on Bridges e Fourteen Hour Dream, pensati quasi come un doppio movimento legato da improvvisazioni soliste. Ma ci sono episodi atmosferici (Breathe) e bozzetti improvvisati (Flight of the Jet) a rendere il tutto variegato e stimolante. Un album che non può essere catalogato alla voce dei ritorni inutili.