Il biopic di RAI Fiction dedicato ad una delle più grandi interpreti della canzone italiana, fra canzoni magnifiche e la maldicenza dei cattivi.

Ancora devono spegnersi le discussioni su quanto sia vero, attendibile (e quanto questo conti o meno) il biopic sui Queen, lo stravisto Bohemian Rhapsody è già tempo di parlare di un altro film imperniato sulla musica, MIA MARTINI – “IO SONO MIA”, prodotto da Rai Fiction con la regia di Riccardo Donna e Serena Rossi come protagonista.



Diamo subito due notizie sulla programmazione: prima di essere proposto a febbraio su RAI 1, il film sarà in circa 300 sale italiane solo il 14, 15 e 16 gennaio, una operazione simile a quella che Nexo Digital ormai da diversi anni fa con una serie di lungometraggi di carattere musicale.

L’arco temporale nel quale si snoda la vicenda copre un ventennio, dagli inizi della carriera della cantante, nel 1969 alla sua partecipazione al Festival di Sanremo nel 1989, dopo sei anni di silenzio ed assenza dai grandi palcoscenici. Il film si apre proprio sugli attimi precedenti il grande ritorno e presenta le travagliate vicende artistiche ed umane di Mimì in una serie di flash-back e flash-forward fra quel momento e la successione cronologica degli eventi a partire dagli inizi, in una forbice narrativa che si apre e si chiude continuamente, stringendosi sempre più. Il tutto in una cornice narrativa inventata, o forse amplificata: le 48 ore precedenti trascorse in compagnia di una giornalista di Epoca, nelle quali per l’appunto Mia racconta le vicende della sua vita.



Ecco, come chiarito anche dal regista e dalla sceneggiatrice Monica Rametta nella conferenza stampa seguita alla Prima milanese, la maggior parte dei personaggi che appaiono nel film sono veri: la sorella Loredana, il manager che la lancia, la sua amica Alba, Bruno Lauzi, Franco Califano (che scrivono per lei pezzi indimenticabili), il padre. Altri sono invece personaggi di fantasia, che sono però in linea con le vicissitudini dell’artista. Una parte del racconto quindi è dichiaratamente affidata alla finzione, ma verosimilmente, per esempio il personaggio del grande amore Andrea (pur assimilabile ad una persona reale) incarna le tormentate storie d’amore vissute dall’artista.



Il film fa rivivere in maniera vivida l’atmosfera di quegli anni, innanzitutto il Piper, dove Mia Martini si esibisce quasi casualmente per tappare un buco di programmazione e dove la ascolta Alberigo Crocetta, che insistendo – il carattere di Mia Martini non era per niente facile – produrrà i suoi primi successi. E insieme all’ascesa, le assurde dicerie fatte circolare sul fatto che portasse iella, fatto questo che ammorbò la vita dell’artista in modo inconcepibile ed assurdo. Poi i suoi colpi di testa, il rifiuto delle condizioni che voleva imporle la casa discografica, la rottura del contratto ed il conseguente tracollo finanziario, fino al ritiro dalle scene ed il ritorno, grazie ad un brano che Bruno Lauzi aveva composto con Maurizio Fabrizio nel 1972, incredibilmente nella stessa settimana in cui aveva scritto anche Piccolo uomo, vero successo dell’artista, e rimasto nel cassetto per più di tre lustri. Stiamo parlando di Almeno tu nell’universo, di straordinaria profondità, da lei reso immortale, e fulcro, come già detto, di tutta la narrazione del film.

Un film che vale la pena di vedere, innanzitutto per le grandi canzoni che contiene. Oltre alle già citate, altri due capolavori come E non finisce mica il cielo di Ivano Fossati e Minuetto di Franco Califano, con cui vinse nel 1973 il Festivalbar per il secondo anno di seguito, oltre ad essere il 45 giri più venduto nell’intera carriera dell’artista.

Ultima annotazione positiva va alla cura maniacale dei particolari. Dagli oggetti d’arredo, alle mille diverse pettinature della cantante (ore di trucco e parrucco per la bravissima protagonista Serena Rossi), agli abiti, all’ambientazione di locali notturni e studi di registrazione, dagli strumenti musicali alle copertine dei dischi (rigorosamente rifatte con il viso dell’attrice interprete), tutto è stato ricreato con una incredibile cura dei dettagli. Il che non è marginale, perché aiuta a ricreare un clima, un’atmosfera in cui è assolutamente necessario immergersi per immedesimarsi, immaginandosi di poter di nuovo fumare ovunque, nei ristoranti, nei locali pubblici; di doversi fermare ad una cabina per telefonare; di poter fare autostop per tornare da una notte brava romana, dopo che ti si è fermata la macchina.

Che scelga di attendere (non a caso in una zona di calendario ‘sanremese’) il passaggio televisivo o che si vada a vederlo sul grande schermo, quella di questo lungometraggio è una sfida da raccogliere, non solo per il gusto vintage di un tempo che non esiste più, ma per gustarsi un’ottima prova attorale (della protagonista, ma anche degli altri attori, tutti meritevoli), una buona sceneggiatura, fotografia, regia, e soprattutto riconsiderare – o scoprire per la prima volta – un’artista sì travagliata nel suo intimo, alla ricerca spasmodica della felicità e che ha dato voce a degli assoluti capolavori della canzone italiana. Fosse anche solo per le grandi canzoni contenute qui, vale la pena. Ah, ultimissima: le canzoni sono state tutte incise ex novo, ma con strumenti e tecniche di registrazione dell’epoca, e ricantate tutte da Serena Rossi, artefice di un grande lavoro dal punto di vista attorale – passo, espressioni facciali, difficilmente distinguibili dall’originale – ma anche ottima cantante.