Spinto dalla curiosita’ di vedere sul grande schermo uno dei maggiori successi cinematografici del 2018, oltre che da un numero ragguardevole di autorevoli ma altalenanti opinioni raccolte qua’ e la’, mi sono recato in una delle ormai poche sale che ancora proiettano “Bohemian Rhapsody” per potermi fare finalmente un’idea di questo film, che racconta la biografia dei Queen ed in particolare del suo frontman (o “performer” come si autodefinisce nel film lo stesso Freddie Mercury). Il film racconta la storia della band e del suo leader dai primi passi, ad inizio anni ’70, fino alla storica esibizione al “Live Aid” del 1985.
L’impressione che ho ricevuto e’ quella di un film ben fatto, coinvolgente, per larghi tratti emozionante. Certo, va considerato il triste “valore aggiunto” dato dalla tragica morte del protagonista avvenuta nel 1991, che come spesso accade in questi casi aggiunge un tocco di malinconia e un senso di leggenda al racconto, riuscendo a coinvolgere anche chi non e’ un ammiratore o un profondo conoscitore della band.
Detto questo, il racconto si snoda ad un ottimo livello sia dal punto di vista dei dialoghi che della caratterizzazione dei personaggi: Brian-Roger-John (gli altri membri della band), la famiglia (di origine Parsi), la quasi-moglie Mary (“l’amore della mia vita”), Paul (compagno e manager nel periodo da solista), nonche’ i vari manager del gruppo e i dirigenti della casa discografica EMI che completano l’entourage della grande rock-band. Tutti costoro partecipano alla vita e alla storia dell’eclettico Freddie, anche grazie ai loro particolari e a volte stravaganti caratteri e comportamenti.
Il messaggio che si percepisce piu’ volte durante il piacevole scorrere del film e’ quello della consapevolezza che tutti gli uomini sono esseri imperfetti, e il fatto di mostrarne la presa di coscienza da parte di ciascuno dei personaggi del film crea un consistente e profondo strato di partenza, su cui l’amicizia e la collaborazione spesso crescono e comunque non vanno mai perdute. Questo vale per Mary, la compagna e promessa sposa che viene lasciata da Freddie per seguire la propria inclinazione omosessuale ma che non viene ne’ dimenticata ne’ abbandonata, o per la famiglia, accantonata per i lunghi anni del successo ma riscoperta e riapprezzata nel finale, o anche per la band, ripudiata per seguire le proprie voglie di protagonismo e di nuove esperienze di musica sesso e droga ma ben presto recuperata come tassello fondamentale per la propria consistenza artistica e umana, per finire con Jim, un incontro occasionale ma significativo che ricompare inaspettatamente e piacevolmente nel finale nell’importante ruolo di amico e compagno (“e’ bello avere degli amici”, dice la madre di Freddie quando le viene presentato Jim).
Certo, anche se in un film di poco piu’ di due ore non ci si puo’ aspettare che venga sviluppato in modo esaustivo ogni aspetto della vita di un personaggio cosi’ poliedrico e imprevedibile, lascia comunque un po’ perplessi la frettolosita’ con cui vengono mostrati eventi importanti come l’incontro con il gruppo, o la prima presa di coscienza di Freddie delle proprie inclinazioni omosessuali (o bisessuali come dice egli stesso nel film). Al contrario, impressiona positivamente l’estrema attenzione per la somiglianza fisica e gestuale degli attori ai loro originali (oltre allo scontato Freddie, anche gli altri componenti della band sono quasi dei cloni), oltre che per la cura dei particolari (i bicchieri sul pianoforte durante il Live Aid, ad esempio).
Resta inoltre sorprendente il senso dell’appartenenza a qualcosa di importante, che traspare in tutti i protagonisti lungo l’intero arco della narrazione (“noi siamo una famiglia” o “non hai mai avuto una band come i Queen” per citare due episodi), pur nelle inevitabili banali discussioni su quale sia il pezzo migliore o sulle decisioni prese in modo improvvido da questo o quel componente del gruppo.
Forse piu’ di questo, comunque, impressiona la capacita’ di ogni componente di recuperare situazioni ormai degradate e apparentemente senza speranza, a sottolineare con intensita’ cio’ che ciascun essere umano desidererebbe: essere amato dai suoi cari per quello che e’, cosi’ come e’, nella spesso deprecabile realta’ di tutti i giorni e non solo negli istanti di massima perfezione (come quello della memorabile performance del Live Aid a Wembley).
Infine, vale la pena di sottolineare un aspetto che potrebbe risultare decisivo sia durante la visione del film che nel giudizio a posteriori: la necessita’ cinematografica di romanzare e riadattare degli eventi che nella realta’ avranno avuto uno svolgimento diverso e meno accattivante puo’ lasciare un po’ l’amaro in bocca, specialmente ai piu’ accaniti fan dei Queen e a chi per vari motivi ben conosce la vera storia della band. Partendo pero’ dall’eccellente risultato raggiunto, ritengo si possano senza dubbio perdonare registi e sceneggiatori per la deriva poco realistica e troppo romanzesca di alcuni episodi, specie rapportandoli alla notevole gradevolezza del film nel suo insieme.