L’ultimo lavoro è stato negli scorsi mesi la rimessa in piedi di un album postumo dell’amico e collega Giorgio Gaber: ma Ivano Fossati ha smesso con la musica “esibita” e con i suoi album diversi anni fa e nell’intervista di oggi a Walter Veltroni sul Corriere della Sera spiega bene il perché. «Credo di aver deciso trent’anni prima di annunciarlo. Ha pesato il mondo dal quale provengo. Mio padre è stato mio nonno. Io il padre non l’ho avuto, è andato via quando avevo un anno. Via, lontano. Lontano da me, da noi. Mio nonno lavorava in una conceria, lavoro duro. Mi ha fatto capire che non era giusto dedicare tutta la vita a quello che si faceva, anche se era una cosa bella. Nella sua idea un terzo della vita doveva essere libero, dedicato a quello che tu sogni di fare, a quello che ti regala serenità, felicità. Nel suo caso — era un uomo semplice, un operaio di fabbrica — era andare a caccia, a passeggiare sui monti». Per il grande poeta della canzone d’autore italiana, oltre che meraviglioso “costruttore di note” (a livello musicale forse uno dei migliori mai visti in tutta la tradizione musicale italiana, ndr) la routine era diventata ormai troppa per poter continuare a scrivere musica “bella” come piace a lui: «Non ho più l’esposizione di me stesso al pubblico. Non c’è più “l’ostensione” in teatro. Non ci sono più la fatica, i chilometri, la tensione. Anche un mestiere come il mio, sembra sacrilego dirlo, nasconde una fortissima componente di routine».
CRITICA A SPOTIFY E SINISTRA: IVANO FOSSATI “A TUTTO CAMPO”
Una delle canzoni più belle di sempre del repertorio di Ivano Fossati – come nota giustamente Veltroni nell’intervista” – è quel “C’è tempo” dove l’autore riflette sulla storia dell’umanità e in fin dei conti, sull’amarezza e nostalgia della sua stessa esperienza di vita: «“un tempo sognato che dovevamo sognare” che significa? Quello che ci aspettiamo, ci aspettavamo e che magari ci è sfuggito. Ma che era doveroso tenere con noi. Cioè c’è una parte di desideri che tendiamo a tenere vicini come se fossero veri e raggiungibili. Anche se, in fondo, sappiamo che non saranno realizzabili e forse non sono nemmeno realistici. Anche se sentiamo che ci stanno sfuggendo. Io ne ho avuti tanti. Cose che sembravano afferrabili ne abbiamo viste tante: politica, cambiamenti, persone. Però questo serbatoio di speranze è qualcosa che tieni vicino a te. Come un bicchiere d’acqua che, prima o poi, potrai bere. Il tempo sognato credo sia questo». Altre stoccate vengono poi lanciare contro l’attualità, sia musicale che politica (oltre all’appello a tutti per considerare i migranti come persone esattamente come lo erano i nostri nonni quando emigravano all’estero nel Novecento): per il grande autore genovese, icona della sinistra per anni, quella scelta di concedere “La canzone popolare” come inno dell’Ulivo di Romano Prodi è qualcosa che oggi non rifarebbe, «Oggi non avrebbe senso, perché i partiti politici di tutto hanno bisogno, tranne che di una musica. Penso che abbiano da affrontare prima altre esigenze, altri bisogni. La domanda era anche: «Lo rifaresti? Te l’hanno più chiesto?». «No, non lo rifarei, l’ho fatto una volta». E comunque, quella volta, portò fortuna…». Infine un accenno alla concezione “veloce” che oggi si ha della musica: «Spotify o YouTube? Siamo passati dalla centralità della musica al fatto che sia diventata il carburante per i cellulari. Si ascoltavano le cose con attenzione, si discutevano, si imparava a sognare o a ragionare. Esattamente come se si leggesse un libro. Non c’era differenza tra immergersi nella letteratura o nella musica».