La produzione di Turandot che ha inaugurato la stagione 2019 del Teatro Massimo di Puccini porta la fantascienza all’opera, pur restando fedele al libretto, alla musica e soprattutto ai sentimenti politici del compositore in quegli anni. Questa Turandot è una grande coproduzione internazionale. Dopo il debutto palermitano, a teatro stracolmo, presente nel palco reale la seconda carica dello Stato (la Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati), nonché il Presidente della Regione Sicilia, il Sindaco di Palermo ed altre autorità, la produzione andrà al Teatro Comunale di Bologna, al Badisches Staatsoper di Karlsruhe ed al Lachta Centr di San Pietroburgo e probabilmente in altri teatri.
Come si è detto in apertura, sotto il profilo scenico e drammaturgico, l’opera è ambientata non “al tempo delle favole”, come previsto dal libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, ma nel futuro delle prossime generazioni, ossia verso la fine di questo secolo: un futuro coloratissimo dove i complessi paesaggi urbani fanno da sfondo a un popolo in abiti che ricordano le epoche dei totalitarismi europei (i costumi sono dell’atelier Alcantara). Il regno di Turandot è un matriarcato che punisce gli uomini per lo stupro subìto dall’ava della principessa: lattei robot dalle sembianze vagamente femminili torturano, violentano e decapitano gli sfortunati pretendenti in un palazzo (quello di Turandot) che è un gigantesco drago, il quale sorvola i cieli della città proiettando immagini tridimensionali che rappresentano i diversi aspetti della tormentata personalità della principessa.
Turandot, nella grande aria del secondo atto (“In questa Reggia / or son mill’anni e mille”), rievoca con la memoria l’epoca in cui erano le donne a dover soggiacere alle violenze del genere maschile. La regia di Fabio Cherstich fa grande uso delle proiezioni del collettivo russo AES+F, un gruppo di avanguardia delle arti visive, apprezzato a livello internazionale, ma per la prima volta alle prese con un’opera lirica e – credo – con un lavoro teatrale.
Ho trattato altrove gli aspetti tecnico musicali, quale la riapertura dei ‘tagli’ di tradizione, la superba concertazione di Gabriele Ferro, la bravura dei complessi del Teatro Massimo di Palermo e la qualità degli interpreti (Tatania Melnychenko, Brian Jagde, Valeria Sepe, Simon Orfila, Vincenzo Taormina, Francesco Marsiglia, Manuel Pierattelli, Luciano Roberti, Antonello Ceron). Un’esecuzione esemplare che mi ha ricordato una celebre registrazione di Zubin Mehta della seconda metà degli Anni Settanta riproposta in CD nel 2014.
In questa nota, mi soffermerò sugli aspetti drammaturgici e sull’uso delle proiezioni. Le proiezioni sono diventate elemento essenziale del teatro e soprattutto dell’opera. Ricordo lo stupore una ventina di anni fa quando alle Terme di Caracalla venne proiettato sulle rovine romane un allestimento scenico di Aida proveniente dalla Washington Opera della capitale americana: era basato esclusivamente su geroglifici e, nella marcia trionfale, bastavano venti comparse per dare l’impressione che fossero duecento. Da allora, molto tempo è passato: su questa testata si è di recente sottolineato il ruolo delle proiezioni negli effetti speciali del Der Fliegende Holländer visto ed ascoltato il 13 gennaio a Firenze. In questi due casi ed in tanti altri, le proiezioni erano perfettamente integrate nell’azione drammatica e nella partitura.
Lo sono quelle di AES+ F? Occorre discuterne. AES+ F sono un gruppo di tre artisti nato nel 1987 a cui si è aggiunto un quarto nel 1995. Hanno avuto riconoscimenti internazionali di peso da anni; ad esempio, hanno rappresentato il Padiglione Russo alla Biennale d’Arte contemporanea di Venezia già nel 2007. Sono di casa a Berlino, a New York, a Parigi ed anche a Tel Aviv, a Sydney, a Toronto. E via discorrendo. Sono artisti del visivo computerizzato e a tre dimensioni. Le loro ‘installazioni’ sono note in tutto il mondo. Lavorano – mi si dice- in un laboratorio messo a loro disposizione dal gigante energetico Gazprom in un grattacielo avveniristico di San Pietroburgo. Come indicato, è la prima volta che si accostano alle arti sceniche dal vivo in generale ed all’opera lirica in particolare.
Una volta scelta dal giovane regista Fabio Cherstich la chiave di lettura fantascientifica, i quattro di AES + F erano la scelta logica. Hanno indubbiamente ben interpretato le simpatie di Puccini per i regimi autoritari (gli Imperi Centrali prima della ‘Grande Guerra’ ed il fascismo, dopo), anche se non credo che passassero per la testa del compositore le sevizie a cui sono sottomessi i giovani in slip dalle donne-vampiro al servizio di Turandot. Hanno dipinto un mondo globalizzato e multietnico, con grattacieli immensi e dischi volanti. Ed hanno introdotto alla fine dell’opera un volto di un bel bimbo cinese quando ‘la principessa di gelo ‘ si è sciolta ed il suo trucido Impero si è trasformato in Regno dell’amore.
Non si sono accostati, però, all’opera con l’umiltà che contraddistinse Giorgio De Chirico quando nel 1933 fece scene e costumi de I Puritani di Bellini per l’inaugurazione del primo Maggio Musicale Fiorentino e nel 1964 allestì Otello di Rossini al Teatro dell’Opera di Roma. De Chirico non rinunciò al suo stile ma lo mise a servizio dell’azione scenica e della musica.
In questa Turandot, invece, il collettivo AES+F ha schiacciato la regia e la drammaturgia con video onnipresenti ed in continua evoluzione. Forse, è l’inesperienza con le arti sceniche e l’opera. Forse Fabio Cherstich non è stato in grado di tener loro testa. Parte degli spettatori hanno espresso il loro dissenso. Maggior sobrietà avrebbe giovato.