“Sono un Dio dorato” urlò un giorno dal tetto di un albergo del Sunset Strip di Los Angeles il cantante dei Led Zeppelin Robert Plant. Da lassù dominava la città delle star, il suo sfarzo, il lusso, la ricchezza. Avercela fatta a Los Angeles, in quel primo scorcio degli anni 70, voleva dire essere diventato un dio, adorato da torme di ragazzine ma anche di maschietti. Plant era bello, affascinante, si era compiuta la trasformazione da semplice cantante rock a “dio dorato”. Se non si capisce questo edonismo tipico di quel periodo storico, gli anni 70,che prese piede allora, non si capisce neanche il fenomeno dei Queen, perfetti rappresentanti di quel periodo musicale.



La ricchezza, le adulazioni, anzi l’adorazione che vissero i grandi nomi di quel periodo storico (da David Bowie a Elton John, dai citati Led Zeppelin ai Rolling Stones a Rod Stewart), se non si conoscono le vicende di “Hollywood Babilonia, il sesso sfrenato come totale esaltazione del proprio io, le pretese, la sensazione che tutto era possibile e disponibile cosa che le case discografiche avevano creato intorno al mondo dei musicisti, pochi mesi prima solo ragazzotti brufolosi che disperatamente volevano fuggire da una vita in ufficio dalle 9 di mattina alle 5 di pomeriggio o, peggio, come Joe Cocker, da minatori con unica alternativa sbronzarsi al pub per il resto della vita dopo il lavoro, non si capiscono i Queen, in questo momento sulla bocca di tutti grazie al grande successo del film a loro dedicato.



Quasi tutti questi personaggi hanno fatto una pessima fine: se non sono morti di droga o di Aids, si sono intossicati talmente tanto che non sono più riusciti a ricreare la grandezza della loro musica iniziale. Era una epoca di decadentismo puro, di superamento di ogni limite, dove la gara era tra chi faceva il disco più pazzo, più esagerato, più invidiabile e si vestiva in modo altrettanto assurdo. Poco importava che in realtà, dal punto di vista strettamente musicale, non ci fosse granché di particolarmente brillante. Con un chitarrista tecnicamente scarso, autore degli assoli di chitarra più noiosi al mondo, capace solo di fare sempre le stesse due scale, come Brian May, non era d’altro canto possibile fare altro. Nei Queen la star era definitivamente Freddie Mercury, gli altri anonimi e banali comprimari di bassa lega. Mercury aveva una visione: esagerata, barocca, culla perfetta per i suoi incubi e le sue visioni, quelli di chi si sente fuori posto nella vita quotidiana, fino a inventarsi una sorta di opera barocca che spiazzò tutti, Bohemian Rapsody, e che soprattutto gli permettesse di finire sulla bocca di tutti con quella che sostanzialmente era una furba operazione di marketing.



Voce straordinaria, capace di dominare il palcoscenico come pochi, cercava sempre di superare se stesso e di annichilire il pubblico, costruendo quella barriera fra “comuni mortali” e l’artista, una barriera che solo il punk avrebbe sradicato. Non è un caso che a questa scena fece da reazione la nascita del punk, musica di due accordi suonata male e look ributtante: erano i giovani nuovi che si erano sentiti esclusi da tutta questa magnificenza, costretti a rimanere fuori a guardare e che adesso reclamavano lo stesso spazio a modo loro. Fu così che i gruppi rock della prima metà degli anni 70 furono costretti ad abdicare, riducendosi i Queen a gruppo quasi da discoteca scese dai troni: la musica rock era tornata fra la gente. Mercury si era distinto in comportamenti insopportabili, come quando picchiò i pugni sul tavolo furioso quando il suo manager non voleva comprargli un pianoforte a coda, fino a sclerare. Come un bambino, doveva avere tutto quello che voleva. A un certo punto il gruppo doveva alla propria agenzia qualcosa come l’equivalente di oggi di 1 milione e 750mila sterline in spese folli. Poi il gioco finì, quando si adottarono a fare qualunque cosa pur di avere un posto in classifica, il meccanismo era ormai inarrestabile.

Freddie Mercury ha pagato il prezzo di una vita sulla corsia di sorpasso per rendersi conto che una rock star è tutt’altro che un highlander, un immortale. “Freddie Mercury si sentiva un dio” racconta il suo primo manager Norman Sheffield “poi cominciò a comportarsi come se lo fosse davvero”.

La morte di Freddie Mercury ha chiuso un periodo della storia del rock. Da allora, i musicisti, a parte alcune eccezioni, hanno smesso di considerarsi degli dei. Per fortuna. Springsteen non fuma neanche le sigarette mentre Bono si concede una sbronza di birra al massimo ogni tanto.

C’è un brano, nel primo album dei Queen, che si intitola Jesus. Parla del Figlio di Dio, ma più che una dichiarazione di fede, di interesse per la Sua figura, è un brano che si ispirava fortemente all’enorme successo del film appena uscito Jesus Christ Superstar, cercava di mettersi su quel sentiero che allora sembrava promettere molti soldi. Il brano invece fu ignorato e dimenticato. Una canzone pasticciata che mette insieme la natività e la guarigione del lebbroso, come potrebbe fare chi non conosce bene il cristianesimo. E’ facile attaccare etichette di senso religioso quando si vuole giustificare quelle che sono nostre idee preconcette. Ed è facile che il mito e la leggenda accumulatasi negli anni faccia ancora oggi saltare in aria i botteghini, quando si vive in un mondo, quello di oggi, dove non esistono più personaggi in grado di esaltare, fossero anche dei bravi mestieranti qualunque come sono stati i Queen. Alla fine della fiera, è solo rock’n’roll.